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  • Elvira Stefania Tiberini

    L’affermarsi del gusto esotizzante si attestò infatti di rimbalzo alla letteratura di viaggio già nel corso del Medio Evo – come nel caso di Marco Polo – promosso dalla naturale curiosità per l’insolito e il diverso, dilatandosi nel Cinque e Seicento con il crescente apprezzamento di oggetti di produzione cinese che si concretizzò nell’escalation settecentesca della moda della chinoiserie. All’invadenza di una imagerie di matrice essenzialmente orientale si affiancò, durante l’Illuminismo, l’idealizzazione di società e popoli etnicamente “diversi” nel segno del ribaltamento della rappresentazione dell’ “altro” traslato nella figura del buon selvaggio di J.J. Rousseau, superstite incontaminato dalla corruzione dell’età moderna.

    Con il Romanticismo, agli inizi dell’Ottocento, l’enfasi – nell’esotico – si spostò in direzione di una rivalutazione del “naturalmente libero”, emblematicamente esemplificata nei romanzi Atala e Les Natchez di Chateaubriand. E, tuttavia, non si registrarono sensibili flessioni nella predilezione per temi e ambientazione orientali né nella letteratura, come denuncia la predominante descrizione di un Oriente di maniera nelle opere, ad esempio, di L. Hearn o di P. Loti, né nelle arti figurative con il climax raggiunto dal Japonisme a Londra e Parigi. Agli inizi del secolo scorso l’esotismo si impose ostentatamente, nell’arte, nella sperimentazione delle avanguardie parigine di forme e scelte figurative ispirate al repertorio estetico delle arts nègres dell’Africa e dell’Oceania.

    L’odierno dibattito antropologico sull’esotismo – i cui contorni finiscono con l’essere definiti dalle modalità di rappresentazione dell’altro e dalle strategie di potere soggiacenti ai modelli interattivi neocoloniali o postcoloniali – s’intreccia indissolubilmente con la riflessione sull’orientalismo di E. Said. La postura discorsiva messa in atto dall’Occidente e abilmente utilizzata per legittimare il colonialismo prima e la paternalistica benevolenza nei confronti di ciò che si qualifica come “altro” dall’Occidente poi, risulta per Said in ciò che egli stesso definisce “l’Oriente dell’Occidente”, fino a perimetrare in termini rigidamente essenzialisti i due nuclei monolitici contrapposti, L’Occidente e l’Oriente, appunto. Nella visione di Said risalta la natura predatrice delle pratiche dell’Occidente che, nel definire, interpretare e valutare l’altro – l’esotico – esplicita la sua vocazione a riaffermare la propria superiorità in asimmetrici rapporti di forza: ciò risulta in una differenza gerarchica fra un Ovest pragmatico e “razionale” e un Est magicamente seduttivo.

    Orientalismo è stato utilmente adottato come strumento per lo scrutinio di più ampie interazioni postcoloniali. L’esotico, infatti – come l’Oriente – è rappresentazione della realtà e, insieme, rappresentazione di ineguali rapporti di potere (Bhabha). E, tuttavia, come ogni rappresentazione si tramuta in realtà per quanti vi si relazionano grazie a processi mediatici e a illusioni letterarie.
    Se l’Ottocento si era impegnato nella confezione di un esotico connotato dalla fascinazione per il misterioso, imperativo postcoloniale è la demistificazione o la de-esoticizzazione delle culture extraeuropee a cui contribuisce in larga misura l’amplificarsi delle dinamiche di globalizzazione e deterritorializzazione (Appadurai, Clifford, Huggan).

    L’invenzione di posti “altri” all’interno delle metropoli pluriculturali si nutre dell’idea esotizzante che essi rappresentino il riflesso concreto di un altrove essenzializzato e senza tempo che tende a derubricare la figura e il bisogno del viaggio, nella sua accezione di fuga corollario naturale dell’esotismo stesso. Nei nuovi contesti multietnici, per converso, non possono essere tralasciate forme di esotismo rovesciato, dunque di “occidentalismi”. Evidente, ad esempio, nell’arte africana contemporanea, l’occidentalismo è «un elemento discreto, un motivo, uno stile, una tecnica… Esistono visioni e fantasie africane che possono o no corrispondere alla lettura di se stessa della cultura occidentale.

    Gli artisti africani incorporano nelle loro opere elementi estranei [al loro orizzonte] che rispondono ai loro bisogni ma che possono avere poco o niente a che fare con aspetti e idee dell’Occidente in sé» (Vogel) selezionandoli da un ampio spartito di opzioni ed inserendo i più significativi in una matrice preesistente. Alla reciprocità di senso nelle dinamiche implicite nelle manifestazioni esotizzanti ed occidentalizzanti non corrisponde tuttavia, di norma, un riequilibrio nei rapporti di forza: le opere degli artisti nativi extraeuropei, infatti, non sfuggono del tutto a classificazioni diminutive di “arte etnica” diversamente da quanto accade per l’arte occidentale, definita semplicemente “modernista” o “post-modernista”. Un’etichettatura ancora in trasparente coerenza con le funzioni della postura discorsiva post-colonialista (Araeen).

    Alla produzione dell’esotico che discende inevitabilmente dall’incontro – o dallo scontro – culturale (Todorov, Segalen, Bhabha) si affianca, altrettanto inevitabilmente la sua stereotipizzazione. In Saggio sull’esotismo, V. Segalen ha elaborato ipotesi tese a difendere l’esperienza esotica dagli stereotipi e da preconfezionate omogeneizzazioni giungendo alla formulazione di una prospettiva radicale fondata sugli assunti che esotico è ciò che non è ancora stato scoperto ed esotico è tutto ciò che è esterno rispetto a chi osserva. L’esotismo si configura allora come un processo che, paradossalmente, tende ad “addomesticare” l’estraneo, il non familiare riaffermandone al tempo stesso l’estraneità e la distanza (Huggan). L’esotismo che da un lato sembra esprimersi in una tensione alla fuga dal consueto, si qualifica dall’altro per l’ansia di appropriarsi di alterità culturali e spaziali e per questo stesso, infine, riduce le distanze e oblitera le differenze inerentemente proprie della nozione stessa di esotico.