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  • Enzo Bianchi

    Certo, essa appartiene al Nuovo Testamento e, come tale, è indicativa della sola tradizione cristiana, eppure nella sua essenzialità contiene elementi che consentono di cogliere degli aspetti comuni anche all’ebraismo e all’islam. Innanzitutto il rimando al “leggere” quanto è stato “detto da Dio”, cioè il rinvio a un libro che contiene la parola di Dio, il messaggio inviato da Dio agli uomini. In modo un po’ semplicistico, i tre grandi monoteismi sono stati definiti “religioni del Libro”: in realtà il rapporto che ebrei, cristiani e musulmani hanno con i rispettivi testi sacri è profondamente diverso, ma per tutti vi è la convinzione che esiste uno “sta scritto” che esprime in modo diretto o indiretto ciò che Dio vuole comunicare all’umanità nel suo insieme, attraverso quanti lo professano come loro Dio e perciò gli appartengono.

    Non a caso tutte e tre le tradizioni conoscono la figura del “profeta”, un uomo inviato da Dio non tanto per annunciare il futuro bensì per “proferire” una parola autorevole da parte di Dio. Così Dio, lasciandosi conoscere attraverso uno scritto, per quanto sacro, pone l’uomo in una tensione dinamica: da un lato egli è il totalmente Altro, santo, irraggiungibile, lontano e separato dal mondo, d’altro lato si fa vicino, comprensibile, udibile in un linguaggio cui l’essere umano può accedere. Fa parte di questa lontananza-vicinanza di Dio il fatto che egli si manifesti come il Dio dei padri: di uomini precisi, che lo hanno conosciuto e obbedito, che lo hanno percepito come una presenza ineludibile capace di mutare il corso della loro esistenza e della storia intera.

    E il patriarca Abramo – anch’egli con modalità e significati diversi – è il capostipite dei credenti nel Dio unico, il primo che ha saputo condurre una lotta vittoriosa contro l’idolatria, abbandonandosi fiduciosamente alla volontà di Dio. Il Dio di ebrei, cristiani e musulmani è quindi esperibile da ogni persona: non è un Dio delle masse, ma di ciascuno e di tutti, un Dio del quale, anche se non si può conoscere l’essenza, si sperimenta il suo modo di essere verso l’uomo: innanzitutto clemente e misericordioso. Nessun nome esaurisce la dimensione “altra” di Dio, eppure il credente può balbettare infinite modalità del suo comunicare con l’uomo.

    E infine, proprio per questa possibilità di conoscenza e di rapporto intimo, che l’uomo sperimenta eminentemente quando accede alla preghiera, cioè al dialogo fatto di ascolto di ciò che dice Dio e di risposta alla sua chiamata, il Dio dei tre monoteismi è Dio dei vivi e non dei morti. Anche qui, le tre religioni monoteistiche differiscono, e profondamente, nelle loro teologie sull’ “aldilà”, ma per tutte vi è la profonda convinzione che la vita è più forte della morte e che rientra nella volontà di Dio un destino per l’uomo fatto di pienezza, di pace, di riposo, di gioia. Il Dio unico è più forte della morte e vuole attrarre in questa sua dimensione di vita piena anche l’umanità.

    Certo non è lecito ricondurre la realtà “Dio”, come la conoscono e la professano ebraismo, cristianesimo e islam, a una dimensione univoca, né si possono confondere o assimilare tradizioni, comprensioni e confessioni di fede profondamente diverse. Rimane in particolare irriducibile la “distanza” dovuta alla confessione da parte dei cristiani di Gesù come Figlio di Dio, “vero Dio e vero uomo”, morto e risorto dai morti. Eppure la plurimillenaria lotta anti-idolatrica e l’appassionata riflessione sull’unicità di Dio da esse condotta hanno potuto fondarsi su alcuni elementi comuni e hanno finito per percorrere strade che sovente si sono intrecciate in un fecondo anche se difficile confronto.