Bernard Lewis: “Islam e democrazia sono compatibili”
Daniela Conte 9 gennaio 2008

Il 10 e l’11 dicembre, a Roma, dissidenti provenienti dal mondo arabo-islamico sono stati ospiti della conferenza internazionale Fighting for democracy in the Islamic world (Combattere per la democrazia nel mondo islamico), organizzata dalle fondazioni Magna Carta, FareFuturo e Craxi in collaborazione con l’Adelson Institute-Shalem Center. Tra i protagonisti personalità di rilevo, come lo storico e orientalista Bernard Lewis, il fondatore del partito nazionale iracheno già oppositore di Saddam Hussein negli anni ‘80 Mithal Al Alusi, Amir Abbas Fakhravar, fondatore della Confederazione degli Studenti Iraniani ed ex prigioniero politico, nonché Saad Eddin Ibrahim, storico dissidente egiziano anch’egli detenuto in carcere per tre anni e fondatore dell’Ibn Khaldun Center for Development Studies.

Lewis ha introdotto le testimonianze dei soffermandosi sul significato dei due concetti cardine dell’incontro, Islam e democrazia, ricordando come entrambi siano ampiamente utilizzati in maniera erronea. Se è vero infatti che molti governi autoritari si sono storicamente autodefiniti democratici e che la democrazia stessa è stata a lungo compatibile con schiavitù e privazione di diritti, è anche indubbio che il termine Islam sia usato indistintamente per descrivere sia la religione musulmana in senso stretto sia la più generale cultura e civiltà. Ci si dimentica spesso che, storicamente, i modelli dittatoriali sono stati importati nel mondo islamico proprio dall’Europa, attraverso il nazismo prima e la sovietizzazione poi. Nella tradizione islamica, invece, a seguito della stessa esperienza di vita del profeta Maometto, è sempre esistita un’autorità limitata dalla legge di Dio e un dovere alla disobbedienza in caso di contravvenzione ai principi religiosi. Lewis non ha fornito una chiara risposta sulla compatibilità tra Islam e democrazia, ma, sottolineando la complessità della questione, ha ricordato come nella tradizione musulmana esistano principi che possono convergere verso un processo di democratizzazione. A sostegno di questa tesi, Saad Eddin Ibrahim ha ricordato che i 2/3 dei musulmani di tutto il mondo vivono in paesi democratici, e che anche nella parte araba del mondo islamico esiste una tradizione democratica nata su ispirazione delle istituzioni europee. Come nel suo paese, l’Egitto, dove la prima costituzione e il primo parlamento nacquero nel lontano 1866.

In realtà tutte le esperienze personali di dissidenza raccontate dagli ospiti presenti sono state testimonianze unanimi della possibilità e della volontà di un incontro tra islam e democrazia. E insieme hanno rappresentato anche un appello corale ad un maggior intervento delle forze democratiche internazionali, perché sostengano e diano più voce e più spazio a quelle parti politiche e sociali che nel mondo islamico lottano per un cambiamento. Amir Abbas Fakhravan ha parlato della prigione, delle torture ricevute in Iran per il suo ruolo di scrittore e fondatore della Confederazione degli Studenti, e della paura costante per l’incolumità della sua famiglia. In particolar modo si è soffermato sul senso di solitudine che provò quando, nel luglio del 1999, gli studenti iraniani misero per la prima volta in seria difficoltà il governo, ma vennero abbandonati dai media e dall’Occidente, che non sostenne la loro rivolta. Fakhravar ha ricordato cosa voglia dire crescere in uno stato dove tutto il sistema educativo è rivolto ad incitare all’odio contro gli Stati Uniti e Israele, dove la scuola elementare assomiglia di più ad un campo militare e sulla prima pagina dei libri di storia c’è l’immagine di un bambino di 12 anni che si fa saltare in aria mentre beve il vino puro del paradiso. “È proprio per controbilanciare questo ‘lavaggio del cervello’, per distruggere la cultura dei kamikaze che c’è bisogno di voci forti, dei media e di pressioni internazionali a sostegno della dissidenza”, ha concluso l’iraniano.

Simile, anche se su un fronte diverso, è anche l’esperienza di Mithal Al Alusi che, dopo essere stato espulso dal Congresso Nazionale Iracheno a causa di una visita pubblica in Israele, a seguito di un attacco alla sua vettura nei pressi di Baghdad ha perso nel 2005 i suoi due figli, Ayman, di 30 anni, e Jamal, di 22. Attualmente leader del DPIN (Partito democratico della nazione irachena), Al Alusi ha iniziato il suo intervento affermando: “E’ vero, vengo da Baghdad, vengo dalla realtà, e combatto per la democrazia e sostengo che tutti dobbiamo combattere per la democrazia perché in Medio Oriente non viene più dato valore all’uomo. Il nostro nemico è molto professionale. Mentre noi qui parliamo di democrazia, di valori, lì la gente viene uccisa. E non smettono per il solo fatto che noi qui parliamo, anzi potrebbero anche divertirsi nel sentirci parlare di cose che per noi sono così importanti, probabilmente direbbero: fateli parlare! Oltre a parlare dobbiamo capire come agire nel mondo reale!”. Il politico iracheno ha chiaramente ammesso che nel breve periodo non c’è speranza per l’Iraq, che, nonostante le prime elezioni democratiche dopo quarant’anni di fascismo e la nuova diffusione della cultura democratica, la situazione continua ad essere critica, l’interferenza dell’Iran è grande e esiste all’interno del paese una fitta rete terroristica diretta da un’intelligence che è sostenuta da grandi risorse economiche e militari. Al Alusi ha ricordato a gran voce: “Non siamo così deboli in questa lotta, ma ci serve un vero e grande sostegno dall’esterno!”.

Gli interventi dei politici, tra i quali l’ex premier spagnolo José Maria Aznar Lòpez e il presidente di Alleanza Nazionale Gianfranco Fini, non hanno saputo proporre soluzioni concrete, ma hanno solo espresso un sostegno morale e di principio a quanti sono in prima linea per una lotta dura e straziante contro un mondo che sono decisi a cambiare a qualunque prezzo. Dimostrazione questa che l’appoggio internazionale c’è, ma fatica a concretizzarsi. Per questo, l’unica vera speranza per la democratizzazione della zona arabo-islamica è nel coraggio e nella convinzione di questi dissidenti, e nella loro capacità di trovare proseliti e di diffondere le loro convinzioni soprattutto nelle nuove generazioni.