Tra i suoi volumi Rossi a Manhattan, Genocidio in Libia. Le atrocità nascoste dell’avventura coloniale italiana e Israele: la guerra dalla finestra.
Nel tuo libro, hai usato un concetto nuovo, “Quasi identità”, come nasce e perché?
L’identità non può essere un valore assoluto. Innanzitutto, più si è intellettualmente curiosi, più si fruga in se stessi, più emergono elementi ereditati o acquisiti che determinano la propria identità. Detto questo, però, tenderei a legare il concetto di "quasi identità" al fatto che ognuno ha almeno tre identità. La prima, formale, è quella che ci viene attribuita da una, diciamo, ricerca scientifica; la seconda è quella che ci attribuiamo sulla base di ciò che sentiamo; la terza, non meno importante e per molti versi determinante, è basata su come siamo percepiti dal prossimo.
Dopo aver viaggiato molto, e partendo dalla tua esperienza familiare e professionale come corrispondente, secondo te l’alterità è una risorsa o una minaccia?
Un esempio. Nei giorni scorsi a Melbourne, in Australia, dove il discorso di identità è sempre più attuale, conversavo in inglese con un signore di mezz’età figlio d’italiani. I suoi genitori erano approdati in Australia come dipendenti del nostro consolato e sono riusciti a restare a Melbourne, lavorando all’interno del consolato per venti anni. Il mio interlocutore è nato e cresciuto là, parla un inglese perfetto ma dice di aver sofferto per la sua condizione di "immigrato". Così veniva percepito dagli anglosassoni. Quando torna in Italia si sente, invece, a casa. Con questo non vuole fare il nazionalista: è sposato con una cinese e i loro due figli sono, dunque, australiani d’origine italiana e cinese. La sua storia mi ricordava uno dei primi viaggi compiuti in Israele. Come sai, vengo da una famiglia laica – padre cattolico, madre ebraica. Un ufficiale del Mossad mi stava accompagnando in giro per il paese per mostrarmi le numerose difficoltà, vere o percepite, rispetto alla sicurezza. Parlava dei pericoli, del fatto che gli ebrei erano odiati da tutti. E mi disse: "Anche se tu non ti senti particolarmente ebreo, se tu fossi cresciuto sotto Hitler avresti fatto la medesima fine di altri sei milioni di ebrei". Non è facile la convivenza tra persone – in famiglia o nella comunità – di origine e costumi diversi ma non credo che vi sia più spazio, nel nostro mondo globalizzato, per il vecchio adagio: donne e buoi dei paesi tuoi. La diversità deve diventare una risorsa. Nei paesi nuovi, Usa e Australia, dove le diverse comunità tendono a mantenersi separati esiste comunque una notevole integrazione. Le prime generazioni vedevano gli altri come minaccia ma per le nuove generazioni le cose sono cambiate. La società perfetta, nel senso di totale integrazione, non esiste. Usi, costumi e soprattutto religione non lo consentono.
I personaggi del libro sono pieni di dubbi, avere certezze è un pericolo?
Avere certezze non è un pericolo ma è limitativo. Blocca, frena la curiosità. Chi viaggia attraverso il mondo o la vita stimolato dalla voglia di conoscere e capire non può avere troppe certezze. I protagonisti di Mosè a Timbuctu sono esploratori. Le dune di sabbia del Sahara hanno un presente e un passato e anche un futuro. Proprio perché a prima vista rappresentano il vuoto, frugare viene ricompensato.
La religione è molto strumentalizzata per fini politici. La laicità è un’alternativa per garantire una convivenza pacifica?
La religione – specialmente le tre religioni monoteistiche alla base della nostra società – è sempre stata strumentalizzata per fini politici o di potere. Sul dollaro americano e sulle monete coniate negli Stati Uniti, campeggia la frase "In God we trust", in dio abbiamo fiducia. In molte botteghe americane gli esercenti hanno appeso dietro la cassaforte cartelli con la stessa frase e l’aggiunta: "Tutti gli altri pagano contanti". Una battuta riservata a chi vorrebbe credito, ma anche un elemento importante della laicità. Dio è un concetto astratto. Ci si può credere o meno. Sono invece le formule imposte dalle religioni a rendere difficile la convivenza tra le varie comunità. Non c’è bisogno di ricordare qui quante guerre sono state combattute in nome della religione, quanti eserciti si sono mossi sbandierando gli stendardi con i simboli delle religioni, quanti massacri, stermini, genocidi sono stati compiuti in nome di questa o quella "chiesa".
Cosa ne pensi della questione delle radici cristiane dell’Europa, ribadita recentemente dal Papa?
E’ strano. Le radici cristiane dell’Europa mi fanno venire in mente soprattutto l’Inquisizione e la cacciata degli ebrei e dei musulmani, le comunità che hanno contribuito quanto se non più di altre alla cultura e alla scienza del nostro continente. La paura che l’immigrazione possa modificare la nostra società è legittima ma il nuovo ordine mondiale è frutto anche delle nostre scelte di crescita. La globalizzazione è partita da noi. E siamo noi a dover trovare le nuove formule di convivenza che si devono basare sul concetto di Stato come entità politica e non entità etnica.
Secondo te, siamo vicini alla risoluzione del conflitto tra israeliani e palestinese alla luce del vertice arabo in Arabia Saudita?
Mi chiedi se siamo più vicini alla risoluzione del conflitto tra israeliani e palestinesi. Posso dire soltanto che mai come in passato la mancata soluzione del conflitto potrebbe tradursi in una guerra devastante per i popoli di una regione che ha come epicentro Israele-Palestina ma che si allarga fino toccare il Sud-Est asiatico. Le formule necessari per arrivare alla pace sono note a tutti e nell’insieme accettate da tutti. Basterebbero pochi mesi per mettere i punti sulle i degli accordi già abbozzati e, in gran parte, integrati nel piano arabo. Ma questo succederà soltanto se gli Stati Uniti avranno coraggio politico e diplomatico per trascinare i leader d’Israele e della Palestina a una nuova stretta di mano.