“Sakrana kosta mnogo”. Ritorno a Belgrado
Arianna Giorgia Bonazzi 7 febbraio 2007

C’era.
Il suono degli indiani a scuola sudata. C’era. La musica umana, lagnante del viaggio. C’era la pancia di nave di fiabe in balene. Il graffio sulla pancia di mio papà da medicare la sera con passetti di indice e medio d’unguento. Bello, no?
C’era il cantiere dove lavorava lui col cane Volks, cane del popolo.
C’era la Skoda a Belgrado dove avevo dimenticato dentro un portacose di Lylia. Avevamo dimenticato anche la nonna. Ma beh.
Qui, tutti mi volevano come una cosa esotica. Vedevano il mio diario in cirillico, e ecco. Gli piaceva di dire: la mia amica di Tirana. Di Belgrado, dicevo io. Si, vabbè diceva la bambina con la voce italiana esagerata. Le bambine muovevano le mani. C’erano i cartolibri dei giramondo, e io ne ero una. C’era il discount da evitare per non sembrare sottotono.
C’era la mamma, che le chiudevo gli assorbenti, li buttavo, perché lei ogni giorno andava già a pulire i bagni delle signore locali. C’erano le gag dei comici con le risate attaccate e io ridevo, e mio papà, di gesso. C’erano i timbri sulle carte di espatrio che gridavano avventura.
Non ero neanche di Belgrado, ma di vicino.
Gli indiani, era la mia nuova classe. Essa parlava come doveva parlare un indiano secondo me.
Ma io ero carina-normale, coi vestiti stirati-giusti e i capelli gialli. E c’era che imparavo svelta le parole brutte. C’era la ricchezza brillata in vetrine sui tragitti scuola-casa, e la pace fuori dalle tivù: cioè qui. C’era la storia della mia fuga da dire dall’alto del quadro svedese ai bambini normali. C’era la loro ammirazione vera e dura come un giocattolo. C’era la pasta e il mare.
Non si doveva parlare italiano a mio padre. In cantiere erano tutti di noi, e la festa di domenica era con tutti noi, più carne. Il papà aveva il graffio e il problema dell’italiano. In italiano, era un muto. C’erano le date sfasate con quelle di mia nonna a causa di un papa Gregorio in papalina brutto.
C’era il portacose per terra, nella Skoda venduta, e secondo me c’era ancora. Il posto accanto a me nel bus italiano era sempre occupato con una bambina sorridente.
C’era l’integrazione e io lo ero. C’erano le corse nei sacchi della circoscrizione per farsi amici stranieri. Ma tanto io, avevo le amiche locali coi cognomi in -ucci, -atti. Con un graffio, come mio padre, sarebbe stato già più difficile. Al mare il graffio si vedeva, e il mare c’era.
Era uno spettacolo.
Io, ho avuto presto tutti i miei animali da cellulare che pendevano come fiori dal mazzo, mentre parlavo con chi mi chiamava, tra i capelli gialli. Mi facevo solo chiamare, furba, e non ricaricavo.
C’erano frasi alla pesca nel portacose di Lylia in Skoda, e non c’erano più. Mia nonna aspettava in grembiule a bocca aperta. Qui il cibo cresceva già lavato nel supermercato italiano.
C’era un bambino, Ugo Matteo, che mi aveva insegnato a fare caro. Credevo che fosse risparmiare nel porcello; invece un giorno mi ha messo accanto il passeggino di sua sorella e le diceva cara, fai cara alla tata. Poi basta.
Suo padre di Ugo Matteo, caporale Covitti, era andato in Kosovo, Dalle tue parti, diceva la signora Covitti – Mica tanto, pensavo io – e mi appoggiava forte il latte davanti con un bum del bicchiere.
C’era il silenzio di tivù, così mio padre poteva pensare che non-era-detto-che-eravamo-via.
C’erano i metriquadri a norma, il consiglio di classe; Ugo Matteo parlava il giusto, non rompeva.
All’inizio lui, mio padre, si era infortunato sul lavoro col sangue, ma la mamma non l’aveva detto subito. Quella sera io volevo vedere Ranma 1/2 invece mi erano venute le cose di donna e mia mamma ha detto in serbo, Quanto sangue, oggi. Non mi aveva fatto né schifo né ridere. Non avevo capito che parlava del graffio di papà. L’avevo messaggiato subito alle mie amiche italiane che dopo mi avevano portato le sigarette da grande, e un hello kitty.
C’era l’idea di andare in Serbia in dicembre. Lì, mi vedevo già le mie cugine senza hello kitty che facevano un centrino. Qua, il capodanno era anticipato gregoriano con dei ragazzi di quinta L con macchine medie ma a doppio tubo di scarico.
C’erano le ragazze, e mi copiavano i compiti e il look, e per me era come una modella che va in America e sfonda perché invece le altre bambine straniere non erano così piaciute e brave in grammatica. C’erano sempre gran filate per me.
Adesso mi faceva schifo se Volks mi leccava quando ero ben messa, e non andavo più in cantiere dal papà che mi diceva lavati e spegni in serbo, e io mi seccavo.
Io ero diventata una italiana e a mia mamma correggevo i plurali. Le feste serbe erano un rito di puzze nei vestiti e dire di no ai cinemi come una lunghissima veglia mortuaria pallosa in cui non fumavo e mi toglievo lo smalto con l’acetone sputavo la cicca e recitavo i balcani. Mi faceva schifo Kusturica come moda, mi metteva in imbarazzo come un ricco che fa il povero per prendermi in giro.
C’era il patriarcato.
I serbi non capivano le pubblicità. I serbi facevano una cosa assurda che è vivere dalla famiglia paterna: in questo modo c’è, da una parte, gente con piene le palle di nipoti. Dall’altra, nonne incancrenite. I nonni tirchi finivano con case come uova di figli. I serbi erano poco pratici. La paprika assumeva tutti gli stati di aggregazione.
Mia nonna se ci andavo col rossetto, ormai voleva bene solo alle mie cugine brutte. Mio padre come ogni maschio della Serbia era rimasto col cervello piegato in 2 dentro sua madre incapace di capire la mia nuova patria e la sua tv pubblica e privata esilarante.
I gettoni per lavatrice erano zigrinati, e le pashmine impuzzate di Nepal. Il rimedio era il Coolwater copiato. Nelle cornette, i neri chiamavano un dio che non prendeva su perché stava giocando, aveva lasciato scritto torno subito col bambù sull’Africa e io mi immaginavo questa scena, e ridevo, e sentivo i tutù fino qua. Trovavo la nostalgia inadeguata.
E comunque, quando in oratorio davano Fratelli d’Italia, andavo via. A scuola, avevo imparato la parola apolide.
C’era una palestra e mi piaceva, con tutta una disposizione ghiacciata di attrezzi. I robò avevano un viso che vedevo; tiravano i corpi di chi aveva tempo extra. C’era la musica che scendeva come un paradiso elettrizzato che perdona, le bici ferme non rischiavano incidenti e niente era sciolto tranne gli integratori messi bene in dispenser.
In palestra ci andavo con la Carla i martedì, e dopo guardavamo un film noleggiato; lei lo guardava in una posizione che esponeva come un museo le sue gambe da mordere grazie all’esercizio. In ginnastica avevamo 9.
C’era il lunapark ed era brutto, per i figli delle giostre scappati in tuta rotta sul cavallo. Degli ex-jugoslavi possedevano le baracche e praticavano il nomadismo primitivo.
C’era la Jugoslavia che si cancellava sotto l’effetto di una potente gomma, e via le facce. Il mio cervello vedeva, quando ero distratta, la deriva dei continenti, solo rimpiccioliti, e uno era una zolla con sopra la mia casa mia nonna e Lylia col quaderno dei segreti. Galleggiavamo in una minestra con mio padre grande che ci guardava come pesci rossi dall’alto e poi la zolla di mia nonna si ribaltava e lui scuoteva la testa. La Serbia si era allontanata per un fenomeno geopolitico. La Serbia la potevo vedere in tivù e non la volevo. La prof. allora diceva Milenka! e io sparavo una risposta vaga che era giusta.
C’era lo splendore classico e l’attuale, i cateti, la belle grafia, l’eye liner, la cartina di geografia dove mettevo il dito dando alitate di menta a un ragazzo col gel che mi chiedeva di dov’ero prima.
C’era l’edicola, l’unica vetrina brutta con Belgrado imprigionata, piena di stelle umane.
C’era una domanda irrisposta di mamme e papà serbi da impiegare nell’aspirazione della polvere domestica matrimoniale sorpassata, e nella lavorazione di materie prime per sedie da esporre a una mostra ergonomica a forma di culi perfetti di single. Andavo alle fiere e a vedere le mostre del futuro con la Carla, chiudevo gli occhi, mi vedevo guardare i miei da una sbarra che era una gabbia che mio padre stava costruendo da dentro, da dove lavorava sposato con la mamma e io gli facevo blah con la lingua.
I genitori della Carla erano separati, e lei faceva il saggio, al saggio li invitava tutti e due, le regalavano un biglietto per un cigno morto all’Opéra di Parigi, ballava truccata. C’era il ballo spiegato in videogame sui tappettini in pantajazz con le mie amiche con le mani parlanti.
C’era la guida tv che separava in colonne i programmi giovani col sesso, da quelli seri per parlare con l’esperto di realtà. Mia mamma, si metteva il talco, diceva etchù, vedeva Capodistria coi polpacci alzati quando non c’era la tempesta magnetica, le telenovele in sloveno simile a noi, mio padre non voleva sentire gli italiani parlare nel talk show dei graffi suoi. Io chiedevo Mtv.

*

Mia nonna è morta a Belgrado che io avevo 15 anni e me ne ero andata a 7. Me la ricordavo un po’, diciamo mezza. Siamo tornati con un viaggione in macchina senza musica anche se io la volevo sentire e non vedere le cugine e le Skode, e mia nonna ghiacciata.
Sono tornata.
Dappertutto, cercavo la targa della mia Skoda con le cose dentro. Della mia infanzia ricordavo solo i numeri i prefissi e date di prime volte che. Lylia era andata a vivere in Germania. Mi immaginavo Lylia come se era diventata una tedesca altissima che mi disprezzava per il suo salto di qualità. Poi me la immaginavo una prostituta che ci-sapeva-farissimo. Poi coi genitori bidelli umiliata. Poi in una scuola tutta lucida scorrevole, ma sempre con la sua faccia di bambina. Guardavo in tutte le Skoda, parcheggiate o piene, e mia mamma diceva che ero cretina, perché di quella città non sapevo niente, era come se non ci ero mai nata e cercavo una Skoda. Erano tante Skode e non leggevo più svelta il cirillico. Io ero una italiana che Belgrado le sembrava tragica. Io al mare in Montenegro non ci volevo andare perché il tigì spiegava che fra un po’ anche i montenegrini si staccavano dai serbi, e mi avrebbero odiata come serba che non ammette la sua serbità, e tifa le squadre italiane e sa i cori.
Io rivolevo la mia tivù che teneva dentro tappate le guerre. Io se c’erano i sondaggi degli incidenti sul lavoro e sulla sicurezza, giravo canale, e la sera passeggiavo con le dita sul graffio di papà che era il nostro cammino di trofei, e un’america.
Una volta alle medie una ragazza mi ha preso perché le avevo rubato un ragazzo, mi ha preso e mi ha detto Milosevič. Lei diceva Milosevič, e io con tutti diventavo la Milosevič di quella classe, e io non volevo essere Milosevič che uccideva la nonna e arrabbiava gli italiani che ne parlavano a cena dove io sedevo invitata con le mamme eleganti con la donna di servizio.
Io volevo fare come le mie amiche, il may day coi carri ska, i papaboy in treno gratis il treno gratis del socialforum, la bandiera dell’Italia col verde accanto allo stecco, a me la politica europea unita, l’America che metteva a proprio agio i ragazzi con le sottoculture musicali le community mi piaceva indiscriminata; io protestavo con mio padre perché non metteva internet, io non volevo più il cane ma l’internet.
Odiavo il festival gitano zingarone.
Io pensavo che ai Serbi stava anche un po’ bene la severità mondiale, per non mettere in imbarazzo le signore con la cucina fine che m’invitavano e pensavano che l’Europa doveva gestirci come un pasticcio.
Io solo avrei preso mia nonna acciaccata, per portarla vicina, muoverle le dita sopra come omini incremati, ma bisognava scegliere, o tornare, o il lettore dvd, sennò non potevo invitare la Carla perché lei diceva, era uno scandalo non adeguarsi al passaggio al dvd o al rincaro, col buon gusto di chi non si lamenta.
Io leggevo le classifiche della qualità della vita nelle province italiane ed ero anche molto ammirata. Io alle medie ho cambiato classe quando quel ragazzo si è messo con l’altra e ha incominciato a dirmi Milosevič anche lui. Nella nuova classe, gli andavo bene per la mia forma di sedere canonica; in più non comperavo mai l’erba bidone ma la buona. Io ho occupato solo una volta per dormire coi maschi. Una volta uno, mentre eravamo in bagno a darci baci e altro, mi ha ridetto Milosevič, e poi dai scherzavo.
Quando sono tornata a casa mio papà aveva la tosse e mia mamma sorrideva. Lei, andava a pulire i posti anche con 38 di febbre.
Mia nonna era andata. Belgrado mi trattava da scema che ero, mi poteva imbrogliare ogni momento. Aveva ragione. Belgrado era una bestia di fame, mi chiedeva un conto in termini di puzze. Si mangiava il mio profumo imbottigliato del riscatto, chiedeva il posto di ricordo che le avevo tolto. Mia nonna non era morta in guerra, ma lei di notte mi diceva sempre che sarebbe morta in guerra. Non la chiamavo perché tanto la vedevo dormendo: lei veniva. Si lagnava di morire scoppiando. Morirai perché sei vecchia, dicevo io. O ti adatti, o non. Io direi che ero scafata. Schiacciavo la sigaretta quando sentivo le chiavi aprire, la voce di mia madre, Milenka?, sentivo di conservare lo stesso i polmoni sani dentro la bocca lustra, mentre mio padre non.
Una volta a undici anni davanti alla mamma sull’IR Forlì-Rimini mi hanno chiesto di dove siete, e io ho risposto non so come Dal lombardoveneto.
Mia nonna, essendo materna, era una nonna sfigata. Lei aveva tre figlie e uno le era morto in pancia perché si era strozzato essendo già troppo coinvolto nel rapporto. Quello forse, se restava, era di compagnia, perché invece le mie zie sono andate a pulire le scale degli hotel svizzeri: lì il tenore di vita schizza come un snowboarder su una rivista, o una tassa.
Per arrivare da mia nonna si attraversava un due quinti di Belgrado che comunque erano tanti. Nelle Skode accodate, guidavano delle facce che avevano visto gli aerei, e non si vergognavano di guardare in alto con sfida la luce diventare verde. Erano tutte facce automatiche come vivere senza la casa intera. E erano tutte sicure, come fare muro contro i padroni terraquei e la polizia corrotta. Non sapevo come facevo questi pensieri. Pensavo che noi, tranne mio padre, eravamo diventata gente che poteva pagare i poliziotti per non seguirli a discutere una multa finta in distretto, per via della moneta nuova che faceva cric cric nei nostri portafogli.
Ero un europeo caduto nei coccodrilli di un parco e ora che li vedevo nelle squame, invidiavo la loro condizione anfibia e addestrata.
Mi pareva che un giorno mentre stavo in gita a Ravenna, qualcuno qua aveva fatto un appello e la gente anche morendo rispondeva sììì, studiava Tito, e io non c’ero, e ora ero interrogata, fregata.
Mi sono sporta, mi sono presa ai poggiatesta davanti, ho messo i capelli dietro come una distrazione, ho spento il signor mozart che cominciava a vibrare nel taschino di bellezza sulla tetta destra, e ho detto dopo un mese papà, nella sua lingua, ma c’era uno che nella guerra nostra aveva più ragione?
Mia mamma diceva sempre che mio papà era bellissimo anche se per me era un puzzle di un giovane venuto un po’ via.
Ho pensato alla popolarità di Volks, all’umidiccio, a cose spiacevoli e modi strani per coprirle. Eravamo imbottigliati nelle Skode, la pioggia scolava dritta nei sandali delle donne di modelli morti, ho pensato a Lylia bambina ma truccatissima da puttana.
A una volta che mia nonna sentiva un telegiornale coi nomi dei dicitori scritti sotto e avevo visto per la prima volta il Vaticano. Mia nonna era sveglia e politica, ma io le dicevo sempre che quella cosa me la spiegava bene l’indomani che non avevo voglia, e mi facevo portare a fare le compere in magazzini che comunque erano scarsi.
Mentre tornavo in Serbia grande, con noi, c’erano i connazionali per dividere la benzina, tornavano sempre per i morti, morti da inchini infiniti. I connazionali saldatori eccetera, li ho sentiti parlare italiano, dicono Belagrado, il capitale. Loro non sanno gli articoli. Loro in Italia fanno i muri, fanno gli ossi del paese mentre noi figli facciamo già la pelle, compriamo telefonini.
Mio papà non mi risponde subito così il mio pensiero fa la solita cosa dell’argentovivo di esagerare. Il mio pensiero è un termometro rotto.
Penso a una tavola dove ci sono più morti che vivi e io vedo tutti. I morti hanno dei buchi nelle teste, buchi di guerra, e i vivi rimasti mangiano e i morti mangiano e cade il purè per terra dai buchi dei morti e i vivi lo tirano su perché ormai sono allenati e non gli può succedere niente di così assurdo.
Belgrado, sembra un posto dove è appena finito un gioco rumoroso. Il gioco era, al buio, quando ne cadeva una, indovinare che tipo di bomba o razzo era e dire il posto dove era caduto. Quel posto diventava distrutto. Allora il giocatore si sbendava e, di solito il mattino dopo, al chiaro, vedeva se aveva indovinato. Evviva.
L’altra squadra era invisibile nel cielo e quando voleva faceva una mossa.
I morti erano seccati di tutte le cene che si faceva in loro onore, erano troppe e troppi loro, una cena alla morte, una al sabato dopo, una a 40 giorni, una a 6 mesi, una a 1 anno esatto, e tutti gli anni fino al settimo. Sempre senza musica. I morti giovani ne erano ammosciati. La gente doveva essere sempre la stessa e si doveva presentare automaticamente senza invito anche se tipo compiva gli anni. I morti bambini vedevano le loro madri vestite di nero in eterno, si annoiavano. I morti, più tanti dei vivi, deprecavano le piangitrici. I morti scuotevano le loro teste trapanate di buchi, dicevano con disappunto concreto, sakrana kosta mnogo.
Che il funerale era caro.
Le mie cugine facevano questi party spesso, detti sakrana. Le mie cugine non facevano party normali, perché dovevano accompagnare i morti dentro la fine per sette anni. Il sakrana era costoso e implicava l’acquisto di cibo pesante e il rimpatrio dei parenti presenti alla morte, anche se volevano andare al mare. Questi parenti dividevano la benzina con chi tornava per altri morti e quasi mai per matrimoni perché, celebrandoli una sola volta, erano più rari. A fare così sembrava che si moriva e basta, e tutti pagavano in carne macellata il conto, c’erano le polpette in sugo e il caffè turco che io chiamavo per sfottere ottomano.
Mia mamma mi ha messa in guardia che è una festa triste fino in cimitero, ma poi essere moderata-triste e a tavola triste-ma-ridere, fare complimenti al cibo. Mia mamma in bagno alla dogana si era cambiata tutta nera come la mia amica Antonia dark.
Mi ricordavo una specie di puzzle 3d con la nonna dentro, e questo era quello che volevo conservare, assieme all’archivio dei numeri. Mi bastava, grazie.
C’era che invece bisognava raccogliere e pelare le proprie patate in una prossimità corporea ultra-antica.
Mio papà, 2 minuti dopo, ha detto.
Potevano pure restare assieme se gli piacciono a tutti le stesse cose. Sfogarsi a fare questi cosi commerciali giganti. Si è guardato in giro. Ha fatto una pausa. Da studente, ho tirato le scarpe a Milosevič.
E’ comparsa un’ex torre della tivù franata. Ho visto uno scoppio nella testa, un mortaretto mega, ho visto una protesta di bambini morti anti-sakrana che tiravano le scarpe alle loro madri vestite da dark coi vassoi di polli morti in letti di patata sfatta.
Ho visto le scarpe di mio padre e le ho immaginate volare allacciate insieme.
Mi sono stropicciata la faccia.
Ora che aveva parlato tanto, il papà per tutto il weekend taceva, masticava e basta.
Sono comparse fuori tutte le semi-case della città. La gente adesso faceva una specie di apparente bella vita nei caffè. Faceva il break con gli ombrelli sul Danubio, dove però l’acqua era di scritte liquide che parlavano della chimicità sperimentata europea. Se non ero né una cosa né l’altra, io ero una zona duty free dove le sigarette costano poco. Le mie coetanee erano inzainate lungofiume. Avevano cambiato strada per andare a scuola perché ogni giorno la strada spariva come un quadro cambiato o un dispetto. Certi giorni le pensavo a prendere il sole col Danubio che restava nero. Nella polveriera dell’aria salivano, pescati, pesci mutanti strani. Quella è la Sava, dice mia madre dark. Ecco, sono uno zero.
Ho pensato il papà di Ugo Matteo, seduto a tavola con tutti, la sorella accarezzata di Ugo Matteo, la mamma laccata come una mamma NATO, il papà di Ugo Matteo con una testa di pesce all’uranio e delle enormi branchie che mangiavamo pesce mentre io gli raccontavo dal sakrana.
Erano due anni che non vedevo Ugo Matteo, era andato a fare i geometri.
Fuori i fiumi si scontravano con l’acqua del cielo. Mia mamma ha presentato me e il Portone del Despota, me e lo sfondo pannonico, me e la statua della Vittoria. Piacere, piacere. Ero troppo grande per chiedere le storie dei miei genitori in questi posti uccisi. Immaginavo senza poterle stoppare scene kistch di mia madre e mio padre adolescenti a baciarsi con la lingua sui monumenti e i palazzi ufficiali sfracellati. Ero invidiosa del loro essere serbi-serbi, e insieme gli volevo dare gli schiaffi e farli diventare uguali ai normali.
In italiano, ortodosso vuol dire normale. Ho guardato normalmente le vecchie a vendere i pizzi. Poi le ho immaginate senza volere mollare i pizzi nell’acqua urlando e scappare da un raid.
Siamo usciti dal centro, abbiamo visto un pezzo peggiore di città che provava a scassinare l’auto e entrare dai vetri, ho sentito amaro, abbiamo mollato a un benzinaio due compagni di viaggio un poco stronzi, ho sentito i posti attorno uguali, il vialone di casa che mi portava, correndo, fieno e anime di cani morti, ho avuto la botta del tempo annodato in pancia, e il morso da topo del dovermi mostrare senza la carta vincente del mio look. E scema come un’europea.
Mi sono guardata nel retrovisore e sono quasi svenuta perché non ero una bambina con le tacche di botte sulla carne bianca grassa. Ho pensato mia nonna mettersi gli orecchini a clip per farsi bella perché arrivavo io, poi ho pensato che non, e mi è scappato che ho riso, e il viale si accorciava verso il fondo. Dentro ero strizzata. Abbiamo parcheggiato vicino a un orto e a delle vanghe per la cura del giardino. Tutto sembrava impresso di luce mogia.
Dentro casa della nonna, uguale uguale, le piangitrici non erano ancora accese e c’era una puzza sana di verze strappate dalla terra come scalpi. Ho spento il pensiero pazzesco. Ho visto lo scialle di mia nonna e una cugina nuova che ci infilava la dita nei buchi di lana, e un dito nel naso. I parenti compassati non facevano chiasso solo perché eccezionalmente c’ero. Prendevano mia mamma e io mi scioglievo come un’aspirina.
Le mie cugine, muovevano le mani. Avevano anelli di cocco normale. Mi sono avvicinata, avevano l’aria saccente della mia età, una piccola pregava, una la teneva in braccio e diceva alle altre scuotendo la testa schifata, sakrana, sakrana kosta mnogo.
Si sono girate, mi hanno visto e riso, mi sono seduta per terra, mi sono vista mia nonna in mezzo a noi che mi sfotteva, e sono stata contenta che non aveva buchi di bomba nel bel cadavere giovanile.

“Sakrana kosta mnogo” è uno dei testi che sono stati scelti per essere recitati all’Eliseo Café di Roma (Via Nazionale 183) nell’ambito della manifestazione Melting Plot. Cinque giovani scrittori diplomati alla Scuola Holden di Torino fondata da Alessandro Baricco leggono propri racconti inediti su luoghi, volti, e storie di emmigrati (un ibrido tra immigrazione e emigrazione). Le cinque serate di Melting Plot, a cura di Alessandra Minervini, mettono in scena storie che capovolgono, con l’ironia, la distanza culturale che convenzionalmente interviene quando metti nello stesso luogo persone che parlano una lingua diversa. I prossimi eventi si terranno il 4 marzo e l’1 aprile 2007.