Femministe nel nome di Maometto
Lucilla Guidi 29 marzo 2010

“Sono cresciuta in un ambiente patriarcale: mio nonno aveva due mogli e due famiglie. Era impossibile per me non diventare femminista, ma non volevo rinunciare alla mia religione. Il femminismo islamico mi permette di essere contro la poligamia e il patriarcato senza abbandonare la mia cultura”. E’ attraverso testimonianze come questa che Renata Pepicelli conduce il lettore occidentale al cuore del femminismo islamico: un movimento che afferma l’uguaglianza di genere e propone la riforma di leggi e istituzioni patriarcali a partire da una reinterpretazione della shari’a. Un paradigma nuovo, che si riappropria della tradizione musulmana da una prospettiva di genere mentre declina il femminismo attraverso l’islam. E che va ben oltre l’attivismo femminile, poiché rappresenta una lente d’ingrandimento per analizzare i cambiamenti in atto nel mondo musulmano contemporaneo, e dunque anche nelle nostre società plurali.

Femminismo islamico. Corano, diritti e riforme (Carocci, 2010, pp. 137) è l’analisi storica, politica e sociale di un movimento che oggi, a vent’anni dalla nascita, è “un’immagine mossa, con persone che stanno per entrare nell’inquadratura e altre che stanno per uscirne. Soggetti nitidi, gruppi di persone, individui isolati”. Una storia a più voci: attiviste nei movimenti di liberazione femminile che non intendono rinunciare all’islam; donne oppresse, tradite dagli stati islamici, in lotta contro la strumentalizzazione della propria religione; studiose musulmane persuase che la conquista della parità di genere possa compiersi anche attraverso un percorso diverso da quello battuto in Occidente. In fondo, “nessuno ha mai sostenuto che l’unica possibilità delle donne occidentali per liberarsi dall’oppressione fosse quella di abbandonare la loro cultura per trovarsene un’altra”, afferma la storica egiziana Leila Ahmed, una delle numerose studiose con cui Pepicelli si confronta. O forse – si domanda provocatoriamente Abou-Bakr – “la coscienza femminista può esistere soltanto in donne mediorientali che appaiono ‘moderne’ e vestono secondo la moda occidentale?”. Davvero il “genere” è, come vuole il pensiero universalista, “una categoria fissa e immutabile, separata da questioni di classe, etnia, razza, età, nazionalità”?

Il testo si addentra nella comunità islamica andando alla radice delle trasformazioni avvenute nel mondo musulmano in cento anni di movimenti femminili, dècadi di lotte sconosciute in Occidente e misconosciute da quegli stessi stati nazionali che le femministe hanno contribuito a edificare, battendosi per l’indipendenza dall’oppressione coloniale. In tal modo, femminismo secolare, femminismo islamico e movimenti femminili islamisti (che rientrano cioè nell’attivismo militante volto all’instaurazione di stati islamici) appaiono dimensioni compresenti, contigue e differenti che si influenzano reciprocamente trasformando dall’interno il mondo musulmano. In questo quadro, il femminismo islamico rappresenta, per così dire, il punto di fuga. Il movimento, infatti, si trova impegnato su due fronti: contestare tradizioni e costumi misogini delle società musulmane e scardinare gli stereotipi che vedono nell’islam la principale causa della subordinazione femminile.

Da un lato, il femminismo islamico contesta l’atteggiamento “salvifico” di una parte del femminismo occidentale che, in particolare dopo l’11 settembre, identificando in modo superficiale islam e oppressione, si rapporta alle donne musulmane con lo stesso paternalismo della società patriarcale da cui vorrebbe liberarle; dall’altro, il movimento punta il dito contro le interpretazioni dei testi sacri realizzate da ristrette elite maschili che “hanno affermato l’inferiorità e la sottomissione femminile tradendo il messaggio del Profeta”. Servendosi dell’ijtihad, la ricerca indipendente sulle fonti religiose, e del tafsir, l’esegesi coranica, le teoriche del femminismo islamico non mettono in discussione la shari’a ma le sue interpretazioni. In questo senso, il femminismo islamico costituisce nello stesso tempo un vincolo e una conquista per le islamiste. Se il costante riferimento all’islam nella riforma dei codici – di cui la moudawwana marocchina è il maggior esempio – rappresenta una conquista, contemporaneamente costituisce un vincolo poiché costringe i militanti islamisti a tenere conto delle riforme.

Il quadro è complesso. E, come afferma la sociologa marocchina Fatima Mernissi, “ridurre le donne fondamentaliste a spettatori obbedienti significa fraintendere di molto le dinamiche del movimento religioso di protesta”. Pepicelli ci mostra un universo non semplificabile ma con un punto fermo: “Il rinnovamento dell’islam si realizzerà con il coinvolgimento delle donne musulmane nei progetti riformatori dell’islam e con il loro appropriarsi del dibattito religioso. Senza di loro non si potrà fare”.