In viaggio con un palestinese
Daniele Castellani Perelli 8 dicembre 2009

Non è certo un romanzo buonista Murad Murad (pag. 176, 14,50 euro, Feltrinelli 2009). La scrittrice e architetta palestinese Suad Amiry vi racconta un viaggio da lei compiuto di notte insieme ad alcuni braccianti palestinesi. Pochi chilometri di strada che diventano un lungo incubo per chi dai territori occupati della Cisgiordania voglia spingersi fin dentro Israele in cerca di un lavoro giornaliero. Amiry, armata di taccuino, decide di seguire (travestita da uomo) il giovane Murad e i suoi amici da Ramallah alla cittadina israeliana di Petah Tikva. Sarà l’occasione per osservare da vicino la vita di un gruppo di ragazzi palestinesi, ciascuno dei quali non sa se faccia più paura «essere arrestato dall’esercito israeliano oppure tornare in direzione del caffè per disoccupati del suo villaggio».

Sono molte le parti riuscite del libro. Quelle autoironiche, che mostrano l’autrice in preda alla «cacarella» durante una traversata che si rivela una «partita a nascondino» e una «caccia al bracciante nell’oscurità». L’autoironia di Amiry spesso investe anche il popolo palestinese («Mi piaceva la linea dura di Mohammad, ma non ci credevo fino in fondo perché, come molti palestinesi, anche lui cambia posizione da un giorno all’altro»), mentre altre volte si tramuta in sarcasmo anti-israeliano («Certe volte nelle torri di guardia i soldati israeliani sistemano dei manichini e se ne vanno. Manichini al posto di manichini»). Le memorie dell’infanzia dell’autrice fanno da intermezzo al racconto, così come degli inserti onirici che però non sono sempre all’altezza e non sembrano integrarsi bene nel progetto realistico dell’opera. Proprio lì sta invece il merito del libro, dove il romanzo si fa reportage, denuncia delle ingiustizie subite dai palestinesi e infine racconto dell’umanità dei protagonisti.

Man mano che avanza il difficile viaggio, con i giovani braccianti costretti alle fughe e ai salti del muro per guadagnarsi la possibilità di una mezza giornata di lavoro in territorio israeliano («Un tempo raggiungevamo il lavoro in mezz’ora – si lamenta uno di loro – e adesso ci vuole un’intera notte in mezzo alle colline, sempre che non ti arrestino o riempiano di botte»), la voce dell’autrice si fa più arrabbiata. Lo riconosce lei stessa: «Questo viaggio ha cambiato radicalmente la mia vita e il mio atteggiamento, facendo emergere la mia rabbia nei confronti di un mondo ingiusto che temo Murad sia destinato ad affrontare da solo».

Così i protagonisti assurgono ad eroi assoluti («Come Muneer e Murad, Saed aveva un aspetto veramente figo, così figo da surclassare qualsiasi israeliano»), e – il vero limite del libro – gli israeliani non compaiono quasi mai, sembrano non esistere (tranne i soldati). Si potrebbe dire che la ragione sta nel fatto che è così che i palestinesi sono costretti a percepirli da quest’altra parte di un muro che sono stati gli stessi israeliani a costruire, ma non sarebbe una giustificazione sufficiente. Gli israeliani sono solo dei «loro», degli Altri, degli Others, privati di ogni umanità e autoasserragliatisi in un luogo crudele in cui «sopravvivono solo i più forti». Così l’interessante progetto di reportage rischia troppe volte di trasformarsi in un libro militante, e la giustissima denuncia della causa dei giovani disoccupati palestinesi è indebolita da un narratore arrabbiato e incapace di riconoscere umanità all’Altro (per quanto l’Altro abbia le sue responsabilità evidenti nelle sofferenze dei palestinesi). Un vero peccato.