Il viaggio di Grossman nella terra della guerra
Alessandra Cardinale 20 novembre 2008

La guerra che invade la delicata struttura della famiglia, ne mina le fondamenta, la consuma lentamente senza però riuscire ad annullarla del tutto. E il coraggio e la voglia di cercare l’amore tra le macerie e la polvere, perché, per David Grossman, ci deve essere per forza. Nel suo ultimo libro A un cerbiatto somiglia il mio amore (edizioni Mondadori), titolo tratto dal Cantico dei Cantici, lo scrittore israeliano racconta la storia di tre amici (Avram, Ilan e Orah) e di due guerre (quella dei sei giorni e quella di Yom Kippur), ripercorrendo i giochi, gli amori, le tragedie personali dei tre ragazzi, che nel libro, come nella realtà di un paese come Israele, diventano improvvisamente adulti.

I tre si conoscono in un reparto di isolamento di un piccolo ospedale di Gerusalemme. La loro amicizia nasce nel buio di una corsia, dove i due maschi e la rossa Orah a mala pena riescono a vedersi in faccia, e molto tempo dopo si trasformerà nell’amore e nel matrimonio tra Orah e Ilan. Dopo alcuni anni Orah, a cui “non era rimasta una sola goccia di rosso nei capelli”, è una donna separata, madre di due figli uno dei quali, Ofer (che in ebraico significa cerbiatto), accetta di partecipare a un’incursione in Cisgiordania, nonostante siano ormai i suoi ultimi giorni di ferma. La testa di Orah si riempie di cattivi presentimenti e decide di partire, non da sola, ma di allontanarsi dal telefono che potrebbe squillare nel pieno della notte per annunciarle la morte del figlio.

Ad accompagnarla nel suo viaggio c’è Avram e tutto il loro passato, il loro amore e i loro corpi che non hanno più 20 anni, ma che ancora si desiderano. E accanto ai grandi drammi, come le torture subite da Avram durante la prigionia, Grossman inserisce le piccole paure umane, come quando Orah teme con l’età di aver perso il suo fascino e di non essere più attraente agli occhi del suo amico, dettagli grazie ai quali i personaggi si addolciscono e diventano vettori di speranza. Il viaggio tra i due vecchi amici procede lento: è un cammino che serve per ricucire il passato e fare chiarezza sugli anni bui che li hanno divisi.

Ad Avram, Orah spiega che doveva partire perchè non voleva fare la fine “di quella del dramma di Cocteau, come si chiamava?”, la donna che aspettava la telefonata del suo amante e che fremava ad ogni squillo. “Non penso avesse un nome” le dice Avram. “Ben le sta”, è la risposta di Orah. Il dramma di cui parla Grossman, e che più volte l’autore, appassionato di teatro, cita nel romazo, è la “Voce Umana” di Jean Cocteau. Sia Orah che Avram temono il confronto con quella voce: Avram, non sorride mai, ha inizialmente paura del contatto fisico con Orah “la tremenda come un esercito a bandiere spiegate”, come la chiamava Avram da giovane e la evita tentando di aggrapparsi ai suoi brandelli di vita e Orah scappa da casa sua, illudendosi che la voce di Ofer non possa raggiungerla tra i boschi della Galilea. Ma neanche il calore e la passione di Avram permetteranno ad Orah di dimenticare Ofer.

Dopo aver saputo che l’autore ha perso il proprio figlio nell’agosto del 2006 durante la seconda guerra in Libano, molti hanno letto il romanzo con occhi diversi, cercando di vedere nella storia di Orah e Ofer il dramma dell’autore e della sua famiglia. In realtà Grossman ha iniziato a scrivere il libro cinque anni fa e gran parte era stato concluso prima della morte della figlio. Il romanzo è pieno di vita e si percepisce forte il desiderio dell’autore di non perdere la speranza e, attraverso le sue storie, di voler riconsegnare alle giovani madri e alle famiglie l’autentico senso del concepimento. Ad un certo punto del libro, dopo la nascita del primogenito, Orah dice a suo marito Ilan: “Ecco mio caro, un altro soldato per Tsahal”. Al che lui risponde, “Quando sarà grande non ci saranno più guerre”.