Colonialismo italiano, tra rimozione e mito di grandezza
Alen Custovic 30 luglio 2010

Indubbiamente quello italiano è stato un colonialismo peculiare: iniziato in ritardo, appena dopo l’Unità, e ristretto nel tempo, quando oramai per le altre potenze si andava sempre più verso la decolonizzazione. I possedimenti italiani erano più piccoli ed economicamente meno vantaggiosi. E’ da considerare inoltre che il governo incitava molti connazionali a trasferirsi nelle colonie, anche per diminuire l’enorme flusso di emigrazione verso i più disparati angoli del mondo (soprattutto dal Mezzogiorno, che, già povero, non di rado considerava quello piemontese già di per sé un colonialismo).

Tutto questo però non vuol dire che i nostri soldati e amministratori furono “brava gente”. Il colonialismo in generale ha seguito un meccanismo di esportazione del modello di civiltà europea mediante l’uso di imposizione, altrettanto fece quello italiano in Etiopia, Eritrea, Libia, Somalia, esercitato con massacri, deportazioni, stermini, leggi razziali. Una delle fasi iniziali della storia colonialista inizia sul finire dell’Ottocento fu l’occupazione italiana della città portuale di Assab. Propagandata con la retorica di aprire scenari di grandezza alla giovane nazione, dietro l’impresa si celavano in realtà interessi di molti armatori, soprattutto genovesi, che volevano l’espansione del porto.

Nel 1896 c’è la famosa battaglia di Adua dove l’esercito italiano fu pesantemente sconfitto da quello abissino guidato dal negus Menleik II, tanto da gelare per anni le ambizioni coloniali italiane sul corno d’Africa. Intanto però nella penisola comincia ad essere forgiata la mentalità coloniale e una nuova politica, arrivando così alla seconda guerra d’Africa, nel 1911 contro la Libia, con meno divisioni interne e un’opinione pubblica più nazionalista (anche se i disertori furono comunque molti). Per piegare l’annosa resistenza gli italiani crearono campi di concentramento e usarono in quantità gas come l’iprite e il fosgene, all’epoca già vietati dalla Convenzione di Ginevra.

Un’altra tappa importante del colonialismo nazionale è l’esperienza in Somalia ed Etiopia, dove però la colonizzazione non si realizzò mai del tutto e anche qui furono usati i gas. Tra le altre cose, soprattutto nel periodo iniziale, venne incoraggiato il cliché della donna esotica, ad esempio attraverso cartoline, raffigurata come disponibile e voluttuosa, che faceva da una sorta di richiamo sensuale per i colonizzatori; mentre successivamente con l’arrivo delle donne bianche, deputate ai ruoli di mogli e madri, le prime vennero relegate a esclusivo stato di femmina. Subito dopo la sconfitta italiana a seguito della rivolta di Sciara Sciat, ad esempio, si scatenò per le strade di Tripoli la caccia all’arabo, nella quale morirono migliaia di libici per le impiccagioni collettive, e cominciarono anche le deportazioni di massa verso l’Italia; coloro che non morirono nella traversata lo fecero per le disumane condizioni di prigionia delle destinazioni – diverse isole italiane – per i maltrattamenti e i lavori forzati.

Tutt’oggi, scrive lo storico italiano del colonialismo Angelo Del Bocca, “ci sono famiglie in Libia che vorrebbero almeno sapere dove sono sepolti i loro cari”. Durante la cosiddetta “riconquista” della Libia degli anni ’30, nella sola Cirenaica ci furono 60mila morti libici. Forse anche per questo, nonostante l’attuale governo italiano dichiari di vantare rapporti politici privilegiati con la Repubblica Popolare, il governo di Gheddafi tutt’oggi non permette ai cittadini italiani nati in Libia di rimettervi piede. Ma anche perché, forse, uno stato giovane (come la Libia di Gheddafi) ha strutturalmente bisogno di creare un’identità nazionale, e a tal fine individuare un nemico anche per valorizzare la resistenza anticoloniale.

L’epilogo del fenomeno comincia nel 1943, con l’occupazione dei possedimenti italiani da parte delle forze britanniche nel contesto bellico della Seconda guerra mondiale. Finiva così la nostra avventura imperialista, sancita definitivamente con i trattati di Parigi che privava per sempre l’Italia delle colonie. Da lì in poi comincia un rapido processo di rimozione storica. Il Ministero delle Colonie chiude i battenti mentre quello degli Affari Esteri, ad esempio, pubblica decine di volumi di L’Italia in Africa, imponente opera nella quale elogiare le virtù della colonizzazione italiana. Un processo di rimozione che oggi riguarda in buona parte i media e anche il sistema educativo, dove a questo (pur significativo) scorcio della storia viene dedicato un breve capitolo.

In definitiva, si può affermare che il fenomeno coloniale, oltre che per le nazioni invase, è stato svantaggioso anche per gli italiani stessi, economicamente (dati gli alti costi) e psicologicamente (visto il riflesso sui singoli partecipanti e sulla nazione intera). Tacitare, forse, non è degno di un Paese che pretende di continuare a restare protagonista nel mondo contemporaneo. Ecco perché – come si dice, per guardare avanti occorre saper guardare anche indietro – in virtù della maggiore consapevolezza collettiva nazionale è auspicabile una “rimozione della rimozione” del passato coloniale.