La casta dei baroni
Daniele Castellani Perelli 10 aprile 2009

Il catalogo degli orrori dei due giornalisti milanesi (l’uno de La Repubblica, l’altro del Corriere della Sera) è spaventosamente ricco di nomi e cognomi, e descrive un paese che, dalla Lombardia alla Sicilia, non ha risparmiato all’Università (il luogo della cultura per eccellenza) il cinico trattamento destinato a quasi tutto ciò che è pubblico: corruzione, spreco di denaro, nepotismo, umiliazioni e, persino, collusione con la criminalità organizzata. Il degrado dell’Università ha conseguenze evidenti sulla qualità dei nostri atenei. “Solo il 45 per cento degli iscritti all’università arriva alla laurea. Meno del Cile e del Messico e largamente al di sotto della media Ocse, pari al 69 per cento”, scrivono gli autori, e aggiungono: “Penoso è il livello di internazionalizzazione delle università se si considera la capacità di attrarre studenti stranieri: meno del due per cento, la metà del Giappone (4 per cento), quattro volte meno della Francia (8 per cento), dieci volte meno degli Stati Uniti (20 per cento)”.

Gli scarsi risultati fanno a pugni con gli alti stipendi dei “baroni”, che certamente sono perlomeno corresponsabili di questo disastro italiano: “Un ordinario guadagna in media 5-6mila euro netti al mese, ma può arrivare, all’apice della carriera, fino a 8500 euro, contro i 4700 euro che guadagna al massimo il collega tedesco, i 5900 dei docenti francesi e i 6600 del collega inglese della Essex University”. Mentre i professori americani hanno stipendi differenti a seconda della loro produttività, quelli italiani sono pagati a secondo dell’anzianità. Nel mondo in cui si forma la classe dirigente del futuro, insomma, il concetto di merito non ha cittadinanza. Come anche quello di trasparenza. Gli autori dedicano molte pagine all’analisi dei concorsi, che testimoniano “la sublimazione dello spirito di conservazione della casta” e sono spesso pilotati (come ha appurato anche la magistratura) secondo schemi di nepotismo o di favoritismo di tipo politico, massonico o persino mafioso. Molto spesso i concorsi sono pensati addirittura con in mente i requisiti di un certo candidato, e per ostacolarne un altro in particolare (ovviamente più preparato di quello raccomandato). E ancora: a Bari si pagavano fino a 3mila euro per passare gli esami, all’Accademia di belle arti di Lecce il tasso di nepotismo è del 30%, in un dipartimento palermitano dieci docenti su diciannove sono imparentati, a Messina una cosca gestiva mezza facoltà.

Nulla di nuovo sotto il sole purtroppo, visto che Indro Montanelli scriveva che i concorsi universitari più che sui generis sarebbero sui cognatis. E la politica, fa qualcosa per ostacolare questa non-cultura? Nel libro gli autori segnalano che negli ultimi anni è stata più che altro la destra a impugnare la bandiera della lotta contro i baroni. Perché? Ci risponde Antonio Castaldo: “L’Onda è stata più o meno indifferente al tema del reclutamento accademico e del potere baronale. Perché in effetti il nodo del contendere era un altro, ovvero la questione dei tagli all’università. Per distrarre l’opinione pubblica dalle proteste di docenti e studenti contro la legge 133, il governo ha poi sollevato il problema degli sprechi e degli eccessi, imputandone la colpa ai baroni. Al di là della tempistica forse sospetta, era comunque ora che qualcuno si occupasse della meritocrazia all’interno della struttura di vertice della nostra pubblica amministrazione, quella dove si forma la classe dirigente (o almeno dovrebbe). Ora sono curioso di scoprire se le misure volute dal governo per limitare localismo, nepotismo e clientelismo all’interno degli atenei funzionino o meno. Io ho qualche dubbio, soprattutto per quanto riguarda il totem dei concorsi”.

La campagna dei giovani di destra contro i baroni, però, è stata spesso motivata più da mera propaganda anti-sinistra che da un effettivo desiderio di rinnovamento: “Gli studenti di destra hanno sempre contestato i ‘baroni rossi’, che secondo il copione mandato a memoria in certi ambienti politici ‘hanno egemonizzato le roccaforti culturali’. Ma l’università è lo specchio della nostra società, ne fanno parte uomini di sinistra, ma anche di destra, come scriviamo nel nostro libro”. E i politici di sinistra, sono stati troppo tiepidi nella campagna anti-baroni? “L’allora ministro Mussi aveva cominciato mettere mano al problema. Qualcosa ha fatto, come ridurre lo scandalo delle lauree regalate grazie ai crediti convalidati. Ma aveva appena messo mano ad un altro potentato accademico, quello dei rettori che si prorogano all’infinito, quando il governo Prodi è caduto – conclude Castaldi – Ora, mentre ci sono già altri due rettori che si accingono a ripresentarsi ben oltre la naturale scadenza dei mandati grazie a modifiche dello statuto votate da maggioranze bulgare, la Gelmini sembra far finta di nulla”.