La via africana al cosmopolitismo
Kwame Anthony Appiah intervistato da Alessandro Lanni 24 settembre 2007

Può sembrare un ossimoro perché la classica accusa mossa contro il cosmopolitismo è la sua presunta negazione delle radici. E questo è avvenuto tanto nei regimi sovietici quanto in quelli socialisti. Non v’è dubbio che, molto spesso, quella critica nascondesse sentimenti antisemiti: il popolo ebraico è stato tradizionalmente associato al cosmopolitismo perché privo di una patria, quindi di fedeltà verso le nazioni in cui, di volta in volta, si è trovato a vivere. È un concetto, dunque, che va inquadrato sotto queste coordinate storiche.

Qual è dunque il prototipo del cosmopolita?

Da sempre, è visto come qualcuno che non mette radici in alcun luogo, da cui discende la peculiare convinzione, nell’immaginario collettivo, che l’uomo abbia una sola identità. Ciò è così palesemente sbagliato che non saprei da dove cominciare il mio discorso. Se le dicessi: «deve scegliere tra essere italiano ed essere uomo», lei mi risponderebbe allibito: «non posso!».

Piuttosto risponderei: dipende.

Certo, dipende. In linea generale, però, gli individui umani riescono a gestire simultaneamente più identità, capendo quasi istintivamente la più adatta al contesto con cui, di volta in volta, hanno a che fare. Ora, una delle ragioni per cui il cosmopolitismo è tradizionalmente letto in contrasto alle forti identità locali è che, da un secolo circa a questa parte, si è fatta strada una peculiare concezione del nazionalismo, secondo cui gli individui devono essere fedeli anzitutto verso la propria nazione, scoraggiando l’appartenenza ad altri gruppi e affiliazioni. Ma, di nuovo, mi sembra un ragionamento completamente sbagliato.

La questione dell’identità una o multipla rientra in gioco.

Di solito, nessuno deve scegliere tra l’essere cattolico o italiano. Per di più in un paese pervaso dal concetto di trinità qual è l’Italia. Non si può sostenere che vi sia una contraddizione intrinseca nell’essere leali alla propria nazione e, al contempo, verso un altro paese o gruppo di affiliazione. È vero, invece, che vi sono particolari situazioni in cui tali forme di lealtà e appartenenza possono entrare in conflitto. È un’ipotesi del tutto verosimile. Ma non è prerogativa di chi coltiva un atteggiamento cosmopolita. È il problema di chi ha diverse identità. Cioè di noi tutti. E il fatto che queste identità possono entrare in conflitto, almeno in linea generale, non implica necessariamente che succederà. È, di volta in volta, il contesto in cui ci si trova a interagire ad alzare o abbassare il livello di probabilità.

C’è chi sostiene che il cosmopolitismo sia un’idea viziata da etnocentrismo. Il «cosmopolitismo radicato» potrebbe essere una risposta a tali obiezioni?

Si riferisce alle sue origini europee?

Sì, penso per esempio all’Illuminismo.

La sua domanda mi spinge ad alcune riflessioni. In primo luogo, non necessariamente il fatto che un’idea sia nata in un determinato paese significa che essa non possa essere valida e fruibile anche da chi viene da un’altra nazione. Così, ad esempio, anche se la scienza moderna è nata in Europa occidentale, nessuno crede che i cinesi non abbiano diritto a praticarla. Occorre dunque partire dall’assunto che l’origine geografica di una determinata idea non ne comporta l’etnocentrismo, inteso come tendenza a imporsi sugli individui di altre tradizioni e culture.

Si può parlare di cosmopolitismo al di fuori della cultura occidentale?

Vorrei segnalare che una certa forma di cosmopolitismo, un’attitudine cosmopolita, è a mio avviso riscontrabile in moltissimi paesi, non soltanto europei. Di più: alcune delle persone più cosmopolite che conosco hanno origini africane e non hanno attinto il loro cosmopolitismo dall’Europa o dall’Illuminismo. Ma sono persone con una particolare propensione all’apertura nei confronti di altre tradizioni e culture, e con una predisposizione ad apprendere da esse, arricchendo loro stessi e i propri interlocutori. E con un forte desiderio di entrare in contatto con idee e costumi di altri paesi. Nonostante il germe del cosmopolitismo sia nato in Occidente, non tanto con l’Illuminismo quanto con Diogene di Sinope (IV secolo a.C.), in realtà l’idea, la particolare indole cosmopolita è riscontrabile in moltissimi altri paesi e senza che chi vi vive abbia mai sentito parlare di Diogene o dell’Illuminismo. È semplicemente un’idea connaturata all’essere uomo.

C’è però chi sostiene – Dipesh Chakrabarty e Charles Taylor, per esempio – che i cittadini europei debbano «provincializzarsi». Le sue riflessioni sul cosmopolitismo, invece, sembrano puntare a un’altra direzione. L’Europa e l’Occidente devono imporre le proprie regole prima di gettare ponti verso i propri interlocutori?

Il cosmopolitismo mal si accorda con l’imposizione di qualcosa, siano regole o valori. L’idea chiave è il dialogo tra diverse tradizioni, e il dialogo non è un qualcosa che si può imporre con la forza. Al contrario, richiede una reciproca disponibilità tra «individui consenzienti». E confondere il dialogo con l’ingiunzione a comportarsi in un certo modo significa incorrere in un equivoco spiacevole. Se chi ti sta davanti non vuole aprirsi al confronto, c’è ben poco che puoi fare.

Qual è la prima regola perché un autentico dialogo tra culture possa aver luogo?

Occorre innanzitutto renderlo allettante, invitando il prossimo al confronto. Il che non significa esigere dal proprio interlocutore un accordo assoluto e incondizionato, salvo sul fatto che confrontarsi è uno sforzo che vale la pena di compiere. Ovvero, il primo interlocutore deve prendere seriamente le idee dell’altro, non convincersi che, nel corso del confronto, le posizioni della controparte emergeranno nella loro assurdità e inconsistenza. Ci si limita a mostrarsi, a mettere a nudo la propria cultura. Io stesso mi sono trovato più volte a confrontarmi e illustrare il mio pensiero partendo da una prospettiva non europea ma africana, perché tale è la mia origine, e non sempre ho ritenuto opportuno dare una paternità geografica ai temi e concetti oggetto di discussione. Si hanno delle idee, si propongono, e chi ci sta di fronte può accettarle o meno. Tutto qua. Non vedo il bisogno di rintracciare – come io pure ho fatto – le origini del cosmopolitismo nel mondo occidentale, considerato nell’accezione più ampia, dato che Diogene nacque a Sinope, nella Costa Sud del Mar Nero, in quella che ora è la Turchia. Se mai, va rilevato come le radici del cosmopolitismo attraversino non soltanto il mondo cristiano ma anche quello islamico, soprattutto il mondo arabo dei «secoli bui» nel Vecchio Continente.

Il cosmopolitismo sarebbe un’idea senza patria.

L’Occidente non va visto come un’entità da contrapporre all’islam perché, lo ripeto, sono più interessato alla validità di una teoria che non alla sua origine. E l’idea del dialogo attraverso le culture, della conoscenza e della gratificazione nel contatto con altri individui – intesi come «prodotti culturali» – non è attribuibile esclusivamente a una ristretta élite di paesi dell’Occidente, ma a chiunque capisca quanto le nostre vite possano beneficiare dell’apertura all’«altro».

Mi pare che ci siamo un po’ allontanati dal multiculturalismo, o no?

Dipende, il multiculturalismo si presta a molteplici versioni.

Penso a quella che ha portato al «Londonistan», quello che Sen chiama «monoculturalismo plurale».

In quel caso, sì. Credo che situazioni di questo tipo siano il frutto di un tremendo equivoco: si confonde il multiculturalismo con la creazione di enclave etniche e settarie che, pur vivendo l’una accanto all’altra, non interagiscono tra di loro. Non v’è niente di più deleterio. E di lontano dalla convinzione che ogni tradizione culturale abbia qualcosa da offrire e da cui apprendere, con effetti positivi per tutte le parti in causa. Non è propriamente un’idea dell’Illuminismo, a mio avviso, quanto del Romanticismo. Ma le garantisco che è un’ottima idea. E, di nuovo, una prerogativa di moltissimi individui, non solo nell’Europa occidentale.

Lei ha origini africane, del Ghana. Ha studiato a lungo la cultura che viene da quel continente. Esiste in Africa una qualche forma di democrazia che non sia il retaggio del passato coloniale?

Senz’altro. La prima cosa che mi viene in mente pensando all’Africa, è l’incredibile eterogeneità delle tradizioni culturali. Nel continente sono ancora parlate le varie lingue tribali, ognuna delle quali corrisponde ad antiche comunità molto diversificate in termini di organizzazione politica. Così, nel XVIII secolo ad esempio, si potevano trovare emirati nell’Africa Ovest e califfati nell’Algeria settentrionale o negli Stati musulmani; un regno Ashanti in Ghana, con il re equiparato a una divinità e una considerevole comunità diversificata sotto il profilo linguistico e, in molti altri posti, società sostanzialmente prive di un sistema politico e di particolari forme di governo, dove la vita era scandita da costumi e credenze popolari che vedevano talvolta una divisione in base al sesso, talaltra nessuna discriminazione tra uomini e donne, che si riunivano per discutere e organizzare la vita della comunità. Tutto questo avveniva in Algeria, Zaire, Botswana e Kalahari, e in alcune delle società africane meno centralizzate, con un ampio spazio per il dialogo, il confronto, il consenso e il dibattito, elementi fondamentali della tradizione democratica.

Altrove, l’organizzazione della società era più verticale.

Laddove regnavano i monarchi, che fossero re o sultani, vi era ancora il legame tra politica e gerarchia che possiamo rintracciare in ogni società che si sta affrancando dalla monarchia. È in queste nazioni che il pieno sviluppo della democrazia deve ancora realizzarsi, proprio come è avvenuto nelle società occidentali (vedi Francia e Gran Bretagna) dove la monarchia non riveste quasi più alcun ruolo politico.

Non c’è l’uniformità che si immagina.

Alcune zone dell’Africa, sono e sono state più pronte alla transizione democratica. Anche nei posti dove essa è stata più difficile, però, come nel regno Ashanti nel Ghana dell’Ottocento, nei villaggi i re fondavano il proprio dominio sul consenso, e quando se ne allontanavano troppo venivano rimossi dalla comunità. Ecco perché l’idea che i governi debbano rispondere agli interessi della comunità, gli stessi su cui il sovrano ha costruito il consenso tra la popolazione, è un dato di fatto anche nelle società meno avanzate.

Nei suoi saggi, parla anche del Ghana islamico che ha conosciuto da bambino, e di un islam assai diverso da quello che ci arriva oggi attraverso televisione e giornali. Come possiamo, a suo avviso, spiegare i molti volti dell’islam odierno? Come rompere quest’immagine monolitica?

Se si vuole tracciare un serio ritratto degli individui con un’identità diversa dalla nostra, occorre spesso ricordare qual è l’essenza della nostra stessa identità. Ad esempio, so che sebbene molti italiani continuino a contrarre matrimonio in chiesa, un numero altrettanto ampio non si considera seriamente cattolico. Sicuramente, però, entrambi questi gruppi comprendono che esiste una differenza tra l’identità cristiana e cattolica e che l’idea stessa di cattolicesimo cambia a seconda che ci troviamo in Brasile, Zaire o Polonia. Lo stesso, mutatis mutandis, nel mondo islamico, che vede contrapposti sciiti e sunniti, o in seno al credo ebraico. E nulla può, di fronte a divari e steccati così profondi, lo sforzo (o almeno il tentativo) da parte di un’autorità religiosa potente – qual è il Magistero cattolico – di imporre uniformità dottrinale.

Qual è il rischio di queste rappresentazioni monolitiche delle varie identità religiose, culturali ecc.?

Oggi si tende a fare il gioco dei fondamentalisti, che mirano a decontestualizzare determinati passaggi del Corano facendoli passare per l’autentico messaggio dell’islam. Ma un discorso analogo varrebbe per il mondo cattolico. I cattolici credono che il Vecchio Testamento coincida con la parola di Dio e, secondo il Vecchio Testamento, gli omosessuali non devono esistere. Questo dovrebbe spingermi a odiare il papa perché egli pensa che i gay debbano essere sterminati? Egli non lo pensa affatto! Certo, Benedetto XVI ha elogiato un papa che una volta disse quella frase, ma sa anche calarsi nella tradizione di interpretazione dei testi sacri, che gli consente di affrancarsi dall’esegesi letterale di una singola frase.

Sembra che il problema ora sia quello di una autentica interpretazione dei testi sacri, sia nel mondo cristiano che in quello islamico?

Chi pensasse che, poiché nel tale libro c’è un passaggio che enuncia un tale principio, tutti i musulmani debbano prenderlo seriamente e agire di conseguenza, farebbe il gioco dei fondamentalisti. Persino i cristiani «fondamentalisti», il cui filone estremo vive nel mio stesso paese, non credono affatto che sterminare gli omosessuali sia cosa buona e giusta, pur affermando di credere a ogni singola frase del Vecchio e Nuovo Testamento in quanto rivelazione della parola divina, da applicare alla lettera. Ebbene, ciò dimostra che vi è una differenza tra ciò che si dice e ciò che si fa, e questo vale per ogni tradizione. Pertanto, nell’interazione con altri individui, è di gran lunga più saggio guardare alle loro azioni piuttosto che alle parole.

Esiste una conciliazione possibile tra nazionalismi, che accentuano l’identità, e il cosmopolitismo che al contrario si rivolge agli uomini senza aggettivi e subordinazioni di provenienza?

Quanto al rapporto tra cosmopolitismo e nazionalismo, vorrei citare un passaggio da I doveri dell’uomo di Giuseppe Mazzini. Egli scrive: «I primi vostri doveri, primi almeno per importanza, sono, com’io vi dissi, verso l’umanità. Siete uomini, prima d’essere cittadini o padri. Se non abbracciaste del vostro amore tutta quanta l’umana famiglia… Se non confessaste la fede nella sua unità, conseguenza dell’unità di Dio […] voi tradireste la vostra legge di vita e non intendereste la religione che benedirà l’avvenire. Ma che cosa può ciascuno di voi, colle sue forze isolate, fare pel miglioramento morale, pel progresso dell’Umanità? […] L’individuo è troppo debole e l’Umanità troppo vasta. Mio Dio, – prega, salpando, il marinaio della Bretagna – proteggetemi: il mio battello è sì piccolo e il nostro Oceano così grande! E quella preghiera riassume la condizione di ciascuno di voi, se non si trova un mezzo di moltiplicare indefinitamente le vostre forze, la vostra potenza d’azione. Questo mezzo, Dio lo trovava per voi, quando vi dava una Patria».

Sorpresa, un americano che cita un padre della patria italiano.

Come si vede, queste parole sono emblematiche di una lettura del nazionalismo, da parte di Mazzini, in un’ottica cosmopolita. Potrei citarle considerazioni analoghe da Herder o qualsiasi altro serio intellettuale tedesco dell’Ottocento. Il cosmopolitismo moderno, quindi, nasce assieme al nazionalismo grazie a uomini secondo cui le due idee erano assolutamente compatibili. Di più: profondamente interconnesse.

Questo articolo è tratto dal numero 99 della rivista Reset

Traduzione di Enrico Del Sero