Tanto che non solo un filosofo empirista come Hume la definisce “la più spinosa questione di metafisica”, ma anche un pensatore sistematico come Leibniz non esita a definire il problema filosofico della conciliazione tra libertà e necessità come un “labirinto” in cui “la nostra ragione spesso si smarrisce”. E Voltaire semplicemente ridicolizza la ricerca di ogni tentativo di soluzione, facendo dire a Pangloss, nel Candide, che la dicotomia libertà/necessità è un falso problema, perché “è necessario essere liberi”.
Più che un falso problema, si tratta di un problema razionalmente indecidibile, come mostra Kant nella terza delle antinomie della ragione. Se non è possibile fondare la libertà, certo si possono addurre ragioni per difenderla dai suoi nemici. E la storia del pensiero filosofico ci offre un vasto catalogo di queste ragioni, a partire da quelle di ordine teologiche (la libertà è un dono di Dio che l’uomo non può toccare) fino a quelle di tipo giusnaturalistico (la libertà è insita nella “natura umana”, e dunque non è alienabile). Tra le varie tesi avanzate, il tentativo di giustificazione evolutiva della libertà, basato su una concezione fallibilista della conoscenza umana e su un’interpretazione individualistica ed evoluzionististica dell’ordine sociale, si rivela forse l’argomentazione più convincente e più funzionale alla politica del dialogo.
Se gli individui sono fallibili e “ignoranti” (nel senso che ignorano una enorme quantità di conoscenze che sono necessariamente disperse tra tutti gli individui) e se solo grazie all’ordine sociale spontaneo che si sviluppa nel rispetto delle regole dello Stato di diritto riescono a realizzare progetti per i quali non dispongono singolarmente delle conoscenze necessarie, allora la libertà diventa il migliore habitat per risolvere la più ampia varietà possibile di problemi.
Permettendo la realizzazione del più elevato numero di interazioni compatibili, la libertà consente non solo la più efficace distribuzione ma anche la più efficace produzione di conoscenza. Più i singoli sono liberi e più numerose saranno le situazioni a cui daranno vita le loro interazioni, con conseguente aumento delle conoscenze disperse; ciò finirà per accentuare le asimmetrie conoscitive, creando nuove possibilità di scambi interindividuali, e così via. I comportamenti liberi avranno quindi una particolare efficacia evolutiva: accrescono le possibilità di cooperazione spontanea e fanno lievitare la capacità di problem solving di un gruppo. Dunque: dobbiamo essere liberi perché siamo “ignoranti” e fallibili e saremo “ricchi” proprio perché liberi. Non è certo una caso che a godere del maggior benessere sono proprio i popoli che storicamente hanno usufruito della più estesa libertà.
Una simile prospettiva epistemologica ed evoluzionista non fonda la libertà – che rimane sempre, in ultima istanza, una opzione etica, cioè una scelta di coscienza – ma ci rende consapevoli dei suoi presupposti (fallibilità e “ignoranza”) e delle sue conseguenze (economiche: il mercato; politiche: la “società aperta”), affinché tale scelta possa essere effettuata ad “occhi aperti”, affinché, in altri termini, quella di accettare o di rifiutare la libertà sia una decisione informata. E ci fa capire che grande risorsa sia la diversità (di idee, di culture, di situazioni, di ambiente) anche nel mondo culturale, oltre che in quello biologico; quando si manifesta nel rispetto del principio di tolleranza, essa rappresenta la migliore risorsa per far fronte all’incertezza e per esplorare l’ignoto. Diversità, evidentemente, che si può affermare solo laddove c’è libertà.