S
  • Dino Palumbo

    Mi sono sempre chiesto perché non adoperare per questo tipo di commenti musicali i Trois morecaux en forme de poire di Satie o Jenny From The Block, di J.Lo. (Jennifer Lopez). La risposta è chiara: tutta colpa della “Storia”. Nel 1982, Eric Wolf, antropologo statunitense di formazione ecologica e marxiana, pubblicava un libro dal titolo ironico e polemico: Europe and the People Withouth History (L’Europa e i popoli senza storia, ribadisce l’edizione italiana del 1990). Abbiamo a lungo immaginato gli “altri”, i popoli fuori dall’Europa e dalla sua storia – scriveva Wolf – come “popoli senza storia”, popoli del cui passato non sarebbe possibile conoscere nulla. In realtà, la quasi totalità dei gruppi umani oggi individuati da atlanti, carte geografiche e linguistiche si sono formati proprio all’interno di una complessa e antica rete di interconnessioni con il “nostro” mondo. “Noi” e gli “altri” sono categorie che si sono costruite all’interno di una storia comune. Anche se per “storia” intendiamo la “nostra” Storia, non esistono “popoli senza storia”.

    E allora perché il nostro senso comune ci porta a pensare, sempre più spesso in maniera implicita e, dunque, in maniera sempre più abitudinaria, gli “altri”, tutti quelli che in un modo o nell’altro immaginiamo esterni al grande flusso della nostra Storia, o al flusso della nostra grande Storia, come esseri umani senza storia, oppure inseriti nella Storia, ma, per così dire, a condizioni particolari – “paesi in via di sviluppo”, “terzo, quarto mondo”, “primitivi”, “società prive di… (scrittura, stato, ecc.)? La risposta, secondo Johannes Fabian, antropologo che ha studiato i rapporti tra i modi in cui gli scienziati sociali costruiscono i propri oggetti e i modi di trattare il tempo, è nelle implicite gerarchie di potere che si nascondono dietro le strategie di de-temporalizzazione o di allontanamento cronologico dell’ “altro” che connotano gran parte delle loro classiche argomentazioni teoriche. La scelta del commento musicale da affiancare ad immagini di antenati preistorici è solo una delle innumerevoli strategie attraverso le quali i nostri sistemi di rappresentazione operano una estromissione dell’ “altro” dal (nostro) tempo, per collocarlo in un tempo “diverso”, evolutivo, magico, strutturale, ciclico.

    La storia, in questa prospettiva, è un sistema classificatorio, che serve ad attribuire alla diverse società umane una collocazione in uno spazio-tempo relativo, che ha senso solo in relazione al nostro (di Occidentali) posizionamento politico, spaziale e cronologico. Del resto Claude Lévi Strauss, fin dai primi anni Sessanta del secolo scorso, polemizzando con Sartre, aveva ricordato al nostro umanesimo storico-filosofico che ogni “dialettica” (ogni visione processuale del mondo) si fonda inevitabilmente su una “struttura” (una classificazione), così come ogni struttura è uno specifico modo di trattare l’intrinseca natura dialettica di ogni prassi umana. Vent’anni dopo, seguendo Lévi Strauss, Marshall Sahlins ha studiato le vicende del Capitano Cook e del suo arrivo nelle isole Hawai. Egli ha mostrato come quelli che nella tradizione occidentale chiamiamo eventi (la storia “evenemenziale”, ricordate?) sono in realtà leggibili in termini molto diversi a seconda delle coordinate concettuali e ideologiche degli attori sociali che partecipano a determinati scenari di interazione. L’arrivo di Cook può, allora, essere visto come la scoperta di un (ultimo) nuovo mondo, come un evento eccezionale, se guardiamo alla scena con gli occhi degli occidentali, o può essere inscritto in una struttura dell’azione di tipo mitico-religioso, che identificando Cook ad una divinità locale, cerca di inquadrare in una griglia concettuale conosciuta una situazione inattesa.

    Parlare di storia da una prospettiva antropologica significa, dunque, pensare ad una struttura narrativa, ad un preciso ordine del discorso, che, nello stesso tempo, fissa le coordinate concettuali all’interno delle quali può mettersi in atto una qualsiasi pratica culturalmente significativa. Gli esseri umani, scienziati sociali e storici professionali compresi, operano sempre all’interno di determinati modi, più o meno consapevoli, più o meno abitudinari e incorporati, di intendere i rapporti tra spazio, tempo e prassi – “regimi di storicità”, così François Hartog propone di chiamare queste strutture narrative. Se, in Occidente, nel corso del tempo – “nel corso del tempo” è appunto un modo di dire che esprime una precisa visione, lineare, sequenziale, irreversibile e cumulabile, del tempo e dei suoi rapporti con lo spazio – si sono succeduti regimi di storicità differenti, le ricerche etnografiche hanno mostrato una forte variabilità delle poetiche dello spazio/tempo, ossia dei modi di dare performativamente forma ai rapporti tra spazio, tempo e azione umana, presenti nel mondo. Qualsiasi rappresentazione dicotomica di simile variabilità (società “calde” vs. società “fredde”, tempo “lineare” vs. tempo “ciclico”, “storia” vs. “mito”, “storia” vs. “memoria”, “modernità” vs. “tradizione”) si è rivelata priva di ogni valenza conoscitiva, incapace di cogliere la complessità e la diversità delle poetiche e delle politiche del tempo. Del resto, se, come ricordava Michel de Certeau, “fare storia è una pratica”, la prassi umana, nelle sue dimensioni creative (poetiche) e strutturali (politiche) non si lascia facilmente cogliere entro rigidi schemi oppositivi.