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  • Fabio Dei

    Che rapporto hanno con la nostra concezione della razionalità, o meglio ancora con la nostra idea di soggetto agente, protagonista della storia? Si può pensare che si tratti di elementi superficiali e inessenziali, strati leggeri di vernice colorata che nulla tolgono all’universalità del comune soggetto umano; oppure che di tale soggetto siano costitutive, introducendo così una dimensione di incommensurabilità nei nostri tentativi di comprenderci a vicenda. La prima è la posizione di Platone, Descartes, Kant; la seconda di Erodoto, Montaigne, Herder. Illuminismo da un lato, romanticismo dall’altro.

    Il dilemma è stato ereditato dalla moderna antropologia, nata con la pretesa di rappresentare una “scienza” della diversità. La mossa cruciale che essa propone è pensare la diversità nei termini di una pluralità finita di culture o identità culturali. È vero che il concetto antropologico di cultura, nei suoi primi usi ottocenteschi, è rigorosamente singolare. Nell’età vittoriana si concepisce la cultura umana come un unico grande tronco, e si fanno dipendere le differenze dalle diverse velocità dello sviluppo evolutivo. Gli altri non sono come noi, ma solo per questioni di tempo: prima o poi lo diventeranno (e, del resto, noi siamo stati un tempo come loro).

    Ma nel Novecento le culture divengono plurali. Prima negli studi e poi nel senso comune, si afferma l’idea di un mondo diviso in entità culturali discrete, compatte e autonome, alle quali ogni individuo appartiene in modo distintivo ed esclusivo. Un popolo, un territorio, un linguaggio, un’identità culturale. Finisce per apparirci naturale la possibilità di disegnare un atlante delle unità culturali del mondo – come un atlante degli stati, solo un po’ più complesso e frastagliato. Le culture sono tante ma finite, e l’antropologia sogna di descriverle e archiviarle tutte, “salvando” dall’oblio quelle che si stanno estinguendo nell’impatto con l’imperialismo e con la spinta omologante della modernizzazione.

    Si apre dunque un panorama che possiamo chiamare relativistico: non perché esclude la possibilità di tratti antropologici universali, ma perché individua nel contesto culturale l’unità di misura della comprensione degli altri. Guardare il mondo “dal punto di vista del nativo”, come si esprimeva Malinowski, è la parola d’ordine dell’etnologia moderna. Il prodotto tipico di quest’ultima è la monografia, una rappresentazione culturale centripeta che esalta l’autonomia e l’interna compattezza di singoli contesti locali, privilegiando unità di studio per quanto possibile isolate e di piccole dimensioni. Lévi-Strauss è probabilmente il pensatore che in modo più suggestivo ha coniugato una concezione universalista dello spirito umano con l’idea della irriducibilità delle culture locali – ammonendo, nel suo celebre manifesto antirazzista degli anni ’50, a non dimenticare “il fatto che l’uomo non realizza la propria natura in un’umanità astratta, ma in culture tradizionali”.

    Sul piano etico-politico, questa visione è di segno progressivo: il riconoscimento delle autonomie culturali sembra una mossa basilare nella lotta contro le dottrine razziste e i pregiudizi etnocentrici che continuano a dominare il senso comune. Ma nell’ultimo quarto di secolo lo scenario cambia ancora. La globalizzazione rende sempre più improbabile l’immaginazione di isole culturali. I suoi effetti, d’altra parte, non sono quelli di un univoco processo di omologazione. La contrazione delle distanze comunicative provoca per certi versi una esplosione delle differenze e delle politiche dell’identità, le quali però mutano di segno. La richiesta di riconoscimento si trasforma spesso in rivendicazione di privilegio, se non in aggressiva politica xenofoba e discriminatoria.

    Il differenzialismo diviene da un lato la base del pensiero neorazzista, e sembra dall’altro alimentare le più pericolose forme di fondamentalismo. Contemporaneamente, le scienze sociali sviluppano una (auto)critica radicale alla nozione stessa di identità culturale, colpevole di essenzializzare e assolutizzare le differenze. Gli indirizzi interpretativi e postmoderni giungono a considerare la “cultura” come una fiction prodotta dalle strategie retoriche del discorso antropologico; gli studi postcoloniali, da parte loro, ne sottolineano il legame con il contesto politico dell’imperialismo. Culturalismo e relativismo, in questa chiave, rappresenterebbero al pari del razzismo (sia pure in modo più raffinato) supporti ideologici al dominio coloniale: pretendendo di descrivere in modo neutrale le differenze, contribuirebbero a giustificare e naturalizzare le disuguaglianze e le discriminazioni.

    Il classico obiettivo antropologico del descrivere le culture si volge allora, in alcuni esiti radicali di questa critica, nell’obiettivo di “scrivere contro la cultura”: di smascherare cioè la violenza epistemologica di cui il concetto, così come quello di differenza, si nutre. “Culture” e “differenze”, si dice, non sono il dato originario dell’incontro con gli altri: il dato originario, il punto di partenza, sono i rapporti squilibrati di potere, da cui le stesse forme della conoscenza discendono. Le differenze non sono mai “date”, ma costruite da un sapere che non è mai così neutrale e innocente come pretenderebbe. Un’antropologia critica, più che indugiare compiacente in un’ermeneutica delle differenze, dovrebbe mostrare oggettivamente i rapporti economico-politici che fondano l’incontro etnografico. Ma con ciò, torniamo ancora una volta al vecchio dilemma.

    Se la diversità culturale è essa stessa una costruzione ideologica, cosa c’è dietro se non il soggetto universale, monolitico ed etnocentrico dell’Illuminismo? La critica al culturalismo essenzialista è sacrosanta e irreversibile. Ma rischia talvolta di sfociare in una concezione assai dubbia, secondo la quali “tutti uguali” è l’essenza e “tutti diversi” un’apparenza messa in scena al servizio del dominio. Centocinquanta anni di pensiero antropologico non hanno certo risolto una volta per tutte il problema dell’articolazione fra unità e diversità: ma hanno perlomeno mostrato quanto sia implausibile comprendere la storia nei termini di una agency astrattamente universale, separata dalle “lealtà” locali, comunitarie, insomma culturali in cui i concreti soggetti umani si trovano a vivere. Anche da questo non si torna indietro.