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  • Annamaria Rivera

    I biologi hanno mostrato, fra l’altro, che la distanza genetica media fra individui è pressappoco pari a quella che separa due supposte razze. Tuttavia, la dimostrazione dell’infondatezza della “razza” non ha mai interdetto e tuttora non interdice che delle collettività siano percepite, categorizzate, trattate quasi fossero “razze”. Come insegna la lunga e tragica storia dell’antisemitismo- qualunque gruppo umano può essere razzizzato, indipendentemente dalle sue peculiarità fenotipiche e perfino culturali e sociali. Lo stigma della razza è, infatti, l’esito di un processo sociale di etichettamento: in definitiva, tutte le razze sono inventate.

    Vi sono innumerevoli definizioni e teorie del razzismo. Secondo quella che Pierre-André Taguieff ha qualificato “modernitaria-ristretta”, il razzismo s’identificherebbe con l’insieme d’ideologie, teorie, dottrine, condotte e pratiche basate sull’idea che i caratteri morfologici e/o il patrimonio biologico o, più specificamente, genetico delle popolazioni umane ne determinino la psicologia, i comportamenti, la cultura, la personalità; e che ciò autorizzi ad istituire gerarchie fra i gruppi umani, tali da giustificare discriminazione, esclusione, segregazione, persecuzione o sterminio. In sostanza, secondo tale proposta (condivisa anche da Claude Lévi-Strauss), il razzismo idealtipico coinciderebbe con il corpus di teorie e dottrine a pretesa scientifica elaborate tra la fine del XVIII e la seconda metà del XIX secolo.

    Questo corpus, che ebbe una lunga gestazione storica, si consolidò sul finire dell’Ottocento, con l’espansione militare del dominio coloniale, l’imperialismo, l’industrializzazione, la spinta dei nazionalismi, lo sviluppo delle scienze naturali e sociali, i grandi flussi migratori, la mitologia della “razza ariana”, l’affermarsi delle teorie evoluzioniste. A giustificare l’espansionismo coloniale, si affermò l’idea del “fardello dell’uomo bianco”, al quale spetterebbe la missione dell’incivilimento dei barbari (Lanternari): anzitutto i popoli extra-europei, poi anche le classi inferiori europee. D’altra parte, un’interpretazione abusiva del darwinismo contribuì a legittimare il teorema di un ordinamento gerarchico delle popolazioni umane, secondo la tappa rispettivamente raggiunta nella scala dell’evoluzione: trasferendo dal piano biologico a quello sociale le leggi della selezione naturale, si finì per affermare l’ideologia della superiorità naturale dei gruppi dominanti.

    Conviene ricordare che, come reazione verso le derive dell’evoluzionismo, fin dal primo decennio del Novecento, con l’opera fondamentale del caposcuola Franz Boas, negli Stati Uniti si sviluppò una corrente di studi e ricerche antropologiche, che, sulla base di un orientamento relativista, condusse un’efficace decostruzione della categoria di razza e una vigorosa critica dell’etnocentrismo e del razzismo.
    La teoria detta modernitaria-ristretta in realtà interdice la possibilità di comprendere la lunga gestazione del razzismo euro-americano e i suoi caratteri attuali. Martin Barker – a partire dall’analisi del caso britannico – ed altri studiosi sulla sua scia hanno mostrato come il razzismo odierno consista nell’imputare alle sue vittime peculiarità culturali incompatibili con la cultura dominante e nel rappresentarle come una minaccia all’omogeneità della nazione e/o ai valori della “civiltà europea”.

    Il neorazzismo – variamente definito: “differenzialista”, “culturale” o “senza razze” (Balibar) – pur non essendo connotato dal determinismo biologico-genetico o essendo questo mascherato, si configura ugualmente come un sistema di ideologie e di atti finalizzato alla giustificazione e/o all’attuazione di pratiche di discriminazione, segregazione ed esclusione ai danni di gruppi e collettività reputati problematici, indesiderabili, inassimilabili, estranei alla norma maggioritaria. Più che parlare di razze e di gerarchie razziali, il discorso neorazzista tende a mettere l’accento sull’inconciliabilità fra “culture”, “etnie”, “civiltà”, termini che spesso si configurano come sostituti funzionali di “razza”.

    Il già citato Taguieff distingue due logiche del razzismo: quello classico, a pretesa scientifica, sarebbe dominato da una logica d’inferiorizzazione delle sue vittime mentre il neorazzismo sarebbe connotato dalla logica del rifiuto e della distruzione. Altri studiosi (Wieviorka) hanno mostrato che in ogni forma di razzismo coesistono la logica dell’inferiorizzazione e quella differenzialista. Altri ancora (Balibar; Rivera) hanno rimarcato che, storicamente, il paradigma biologista non ha mai completamente scalzato paradigmi di tipo spiritualista o culturalista. Il razzismo nazista era costituito da un amalgama nel quale coesistevano motivi biologisti insieme con motivi che oggi definiremmo culturalisti o differenzialisti, e la stessa cosa può dirsi del razzismo italiano d’epoca fascista.

    D’altra parte, il discorso neorazzista può essere definito culturalista con molta approssimazione, poiché “la cultura può anch’essa funzionare come natura” (Balibar): un dato originario, immutabile, capace di determinare gli individui e i gruppi con la stessa forza che era attribuita alla “razza”. Inoltre, quando qualifichiamo differenzialista il neorazzismo, per indicare che la coppia superiorità-inferiorità è stata sostituita dalla coppia identità-differenza, dobbiamo essere consapevoli che le due coppie sono state sempre compresenti nella storia dell’ideologia razzista. Come giustamente sostiene Balibar, l’antisemitismo è per eccellenza differenzialista, così che, dal punto di vista del discorso formale, il razzismo attuale può essere considerato come una sorta di antisemitismo generalizzato. Un’altra espressione esemplare di razzismo differenzialista è il sistema d’apartheid in Rhodesia (oggi Zimbabwe) e nella Repubblica Sudafricana. Qui divenuto politica ufficiale di Stato nel 1948 e abolito solo nel 1991 (in Rhodesia lo era stato nel 1979), esso resta uno degli esempi più radicali e persistenti di razzismo in una società contemporanea.

    Dopo questa lunga premessa, possiamo definire per approssimazione il razzismo come un “fatto sociale totale”, un sistema d’idee, discorsi, rappresentazioni e pratiche sociali, che attribuisce a gruppi umani e agli individui che ne fanno parte differenze essenziali, generalizzate, definitive, allo scopo di legittimare pratiche di stigmatizzazione, discriminazione, segregazione, esclusione o sterminio. Conviene aggiungere che alle collettività definite radicalmente differenti è negato il diritto di autodefinirsi. Questo sistema è solitamente incrementato da pratiche discriminatorie quotidiane, che spesso assumono forme sottili e indirette, tali da produrre una stratificazione di disuguaglianze in termini d’accesso alle risorse sociali, materiali e simboliche (status, istruzione, conoscenza, informazione…). Il razzismo detto ordinario è oggi esperienza quotidiana delle minoranze –soprattutto quelle “d’origine immigrata”- che vivono in Europa e nel Nordamerica. Gli individui appartenenti a gruppi minoritari sono discriminati in quanto percepiti e categorizzati come differenti e quindi problematici, devianti o pericolosi, e in quanto gli attori del gruppo dominante pensano che il trattamento discriminatorio sia normale o legittimo (van Dijk).

    Il razzismo ha solitamente una dimensione anche istituzionale. La nozione di razzismo istituzionale, elaborata in ambienti afroamericani (Carmichael e Hamilton , suggerisce che l’ineguaglianza strutturale di certe minoranze non è solo il frutto di pregiudizi e comportamenti discriminatori della maggioranza, ma è anche l’esito di norme, procedure e pratiche routinarie delle istituzioni (De Rudder). Moltiplicandosi gli atti di razzismo e divenendo routinaria la discriminazione, s’incrementano le immagini negative delle minoranze e ciò a sua volta rafforza xenofobia e razzismo. Un ruolo importante nell’alimentare questo circolo vizioso, tipico del razzismo, è oggi svolto da alcuni mezzi di comunicazione di massa: raccogliendo, amplificando e legittimando luoghi comuni, stereotipi e pregiudizi sulle minoranze, essi contribuiscono decisamente alla riproduzione del razzismo.