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  • Annamaria Rivera

    I sociologi nordamericani la reinterpreteranno e l’adatteranno al peculiare contesto della loro società. “Possiamo definire minoranza un gruppo di popolazione che, a causa delle sua caratteristiche fisiche o culturali, si distingue dagli altri all’interno della società in cui vive per il trattamento differenziato e diseguale cui è sottoposto, e che per questa ragione considera se stesso oggetto di discriminazione collettiva. L’esistenza nella società di una minoranza implica l’esistenza di un corrispondente gruppo dominante che gode di un migliore status sociale e di maggiori privilegi. Dalla condizione di minoranza deriva l’esclusione dalla piena partecipazione alla vita della società”.

    Questa definizione dovuta a Louis Wirth, sociologo della Scuola di Chicago, appare tuttora una pietra miliare, benché sia stata formulata più di sessant’anni fa ed abbia bisogno di alcune correzioni e aggiornamenti. Wirth ci fornisce tuttavia alcune indicazioni preziose. Anzitutto, il concetto sociologico di minoranza non è d’ordine statistico: una minoranza intesa in senso sociologico può essere maggioranza dal punto di vista numerico e viceversa. L’esempio degli afro-americani è quello più calzante: benché numericamente costituiscano la maggioranza in non pochi stati degli Usa, la loro condizione resta anche là minoritaria.

    Le stesse frontiere fra maggioranza e minoranze non hanno nulla di naturale o di primordiale. È il processo di formazione dello Stato moderno e l’assunzione del principio di nazionalità come fondamentale e discriminante che creano il problema delle minoranze. Insomma, è “il sistema giuridico e politico di una società a stabilire se individui o gruppi debbano essere ‘incorporati’ come eguali o diseguali e, in definiva, a determinare l’esistenza delle minoranze”. Le minoranze sono considerate particolari, singolari, differenti; la maggioranza, al contrario, si reputa generale, universale, normale. Il particolarismo e la differenza imputati o riconosciuti ai minoritari sono spesso considerati negativamente e/o svalorizzati dai maggioritari, in ogni caso percepiti come uno scarto rispetto alla norma definita dal gruppo maggioritario ed attribuita a se stesso.

    In definitiva, ciò che va considerato centrale nel concetto sociologico di minoranza è la condizione di dominazione, di dipendenza e d’esclusione. In tal senso, meglio sarebbe parlare, come suggerisce Colette Guillaumin, di situazione minoritaria, per evitare che anche su questo concetto, come su altri affini (si pensi ad etnia) gravi il peso dell’essenzializzazione e dell’attribuzione di qualche fondamento originario.
    Per alcuni autori, è necessario delimitare il concetto di minoranza, affinché la recente tendenza a dilatarlo oltre misura, estendendolo alle categorie più disparate (disabili, omosessuali, vegetariani, consumatori di “droghe leggere”…) non finisca per annacquarlo e renderlo non-operativo. La nozione andrebbe dunque riservata a gruppi e collettività “i cui membri sono legati da una comune cultura, da somiglianza se non comunanza di costumi, modi di pensare, di sentire e di agire, accompagnata da un sentimento d’appartenenza più o meno forte e condiviso”. È vero, nondimeno, che la situazione minoritaria di gruppi con questi caratteri storici può illuminare, per comparazione o analogia, la condizione di altre collettività svantaggiate, discriminate o comunque divergenti dalla norma maggioritaria.

    Oggi, in Europa, il panorama dei gruppi minoritari è divenuto più complesso: alle storiche minoranze nazionali, religiose, linguistiche (riferendoci solo alla Francia e all’Italia, possiamo citare, fra le altre, quelle basca, bretone, corsa, alsaziana, ladina, valdese, arbëreshe, occitana, friulana, provenzale, franco-provenzale, grecanica…) si sono aggiunte le minoranze create dai più recenti processi migratori. La propensione, anche istituzionale, ad etichettare e stigmatizzare, ad attuare condotte e politiche discriminatorie verso le collettività “d’origine immigrata” non fa che produrre minoranze. In conclusione, per indicare una possibile prospettiva politica, si potrebbe estrapolare dalla tipologia dei gruppi minoritari elaborata da Wirth in base al criterio delle loro strategie, quella ch’egli definisce “pluralista”. Si può ritenere, scrive Wirth, che la minoranza pluralista abbia raggiunto il proprio scopo allorché sia riuscita “ad estorcere al gruppo dominante il pieno riconoscimento dell’uguaglianza in tutti i campi dell’economia e della politica e il diritto di essere lasciata in pace in tutti i campi della cultura” .