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  • Giorgio Fazio

    Il termine viene introdotto dal filosofo francese Destutt de Tracy alla fine del ‘700, per indicare la “scienza della formazione delle idee”, indirizzo di ricerca a cui farà successivamente riferimento il gruppo di filosofi e studiosi tardo-illuministi noti con il nome di idéologues. Da quando Napoleone la usa in modo dispregiativo per tacciare il gruppo di poco contatto con la realtà e di poco senso politico, la parola perde però la sua connotazione inizialmente neutrale ed esclusivamente filosofica.

    È con l’analisi di Karl Marx, consegnata in particolare alle pagine dell’Ideologia tedesca del 1845, che il termine acquista tuttavia la densità di significato ancora impressa nel suo uso corrente. In linea generale Marx, con ideologia, intende ogni forma di rappresentazione teorica che, inconsapevole dalla propria condizionatezza storico-materiale, pretende di esprimere una visione del mondo neutrale e universale. Secondo Marx tale meccanismo, che autonomizza idee e valori dal contesto di interessi sociali ed economici in cui essi trovano la genesi, risponde all’esigenza della classe sociale in ogni epoca dominante di presentare come universali i valori che le sono propri. Il portato di questo meccanismo è la formazione, che Marx si propone di smascherare in tutte le forme della vita spirituale, di un’immagine capovolta e rovesciata della realtà.

    Nel pensiero marxista successivo però, in particolare con Lenin e Lukács, il concetto viene esteso ad indicare anche la concezione ideale della classe dominata, del proletariato, a cui viene attribuita la facoltà di accedere, in virtù della sua condizione di subalternità, ad un punto di vista obiettivo sul corso storico e sulla realtà sociale. Nel corso del ‘900 il concetto di ideologia trova una sua rielaborazione e riconfigurazione in ambito sociologico, in particolare ad opera dell’italiano Vincenzo Pareto e del tedesco Karl Mannheim. Nell’ambito di una teoria complessiva delle elités e delle classi politiche dominanti, Pareto, nel Trattato di sociologia generale del 1923, vede nell’ideologia lo strumento fondamentale di manipolazione di cui le classi politiche si servono, per illudere gli altri e anche se stesse, consistente in una forma di razionalizzazione dei propri impulsi.
    Sulla base della differenziazione tra un’ideologia particolare del punto di vista individuale, e un’ideologia generale, costituita dall’insieme delle idee condivise dall’individuo con il suo gruppo, Karl Mannheim invece, in Ideologia e Utopia del 1929, riconfigurando la tesi marxiana del rispecchiamento tra struttura e sovrastruttura, concepisce l’ideologia come il punto di incontro dinamico tra un processo mentale individuale e uno collettivo.

    In entrambe le interpretazioni viene confermato il significato di ideologia come apparato teorico non scientifico, veicolante un’immagine falsificata della realtà, finalizzata a stabilizzare rapporti di potere e di dominio. È dando rilevanza a questi aspetti che Hannah Arendt, nel volume Le origini del totalitarismo del 1951, ricostruendo i meccanismi alla base del funzionamento dei regimi totalitari, riconduce alla categoria di ideologia la sistematica opera di contraffazione della verità propria dal potere totalitario; il cui senso viene individuato dalla Arendt nell’imposizione pubblica di un’immagine della realtà, in grado di conculcare ogni elemento di differenziazione e di apertura inscritti nella sua visibile apparenza naturale.

    È sulla base di diagnosi come questa e della lacerante esperienza storica delle contrapposizioni ideologiche che hanno insanguinato il ‘900, che nella sfera pubblica occidentale si è salutato con favore, in occasione del crollo dei regimi dell’est Europa, l’evento della “fine delle ideologie”, auspicando con esso il definitivo imporsi su scala globale di un modello di politica improntato ad un atteggiamento pragmatico: un atteggiamento in grado cioè di commisurare idee e valori alla loro praticabilità e in grado di ricondurre questi ultimi al gioco di negoziazione e pubblico confronto proprio della democrazia. Per un pensiero che abbia a cuore l’incontro e il dialogo tra diversità inter-culturali, ciò non dovrà significare necessariamente disconoscere il valore degli ideali e delle concezioni del mondo in quanto tali, ma rigettare la pretesa che qualcuno di essi possa, di per sé solo, accogliere in sé il punto di vista della verità.