C
  • Alessandro Simonicca

    Tali tradizioni sono importanti perché costituiscono le regole significative che spiegano le ragioni più profonde dell’agire umano. Il termine, vivacemente discusso, conosce due accezioni fondamentali, l’estesa e la ristretta. La prima lettura, estesa, designa ogni circoscritto modo di vivere che una cerchia sociale esprime quando affronta specifici temi o problemi di vita. È un utilizzo assai diffuso nella comunicazione quotidiana e nelle discussioni pubbliche, pur se si presenta spesso approssimato, generico, se non proprio utilizzato a fini di “manipolazione ideologica”.

    È caratteristico di tali modi di vivere il loro connotare solo regioni limitate di senso della società cui appartengono i soggetti. Semplificando, su questa linea possiamo trovare etichettate come “cultura” una intera area geopolitica accomunata dalla sua storia (ad es., “cultura europea”), una ideologia o una strategia decisionale (“cultura politica”), tempo libero e stili individuali (“cultura sport” o del trekking), identità individuali e socievolezza (“cultura dei media” ma anche del “cibo”, della “festa” o del “ballo”…), preferenze estetiche e scelte di vita (“cultura edonistica” ma anche del “cinema” o del piercing), comportamenti economici e disposizioni individuali (“cultura di impresa”), valori e fini ultimi (“cultura religiosa”), e così via.

    La seconda accezione, ristretta, indica invece una realtà ideale condivisa da una popolazione o da un gruppo sociale, e perciò capace di dare significato, in varia intensità, all’intero suo modo di agire. Ciò permette agli individui di produrre pratiche simboliche e sociali, che esprimono una concezione complessiva del vivere e del dare ordine mentale al mondo, differenziandosi da altre pratiche e quindi da altre culture. Il campo delle differenze che si istituiscono è denominabile “diversità culturale”. In ambito religioso, ad esempio, possiamo osservare una discreta varietà di modi con cui varie porzioni di umanità si relazionano alla sfera del divino: il cattolico che va in chiesa si toglie il cappello, l’ebreo lo mantiene, il musulmano si toglie le scarpe. I tre comportamenti diversi esprimono tre diverse forme di rispetto verso il sacro, e quindi di religiosità, ma anche tre irriducibili modi di pensare e sentire il rapporto fra uomo, dio e mondo, e riassumono i principi culturali che distinguono tre differenti civiltà, l’ebraismo, il cristianesimo e l’islamismo.

    Tale seconda accezione attiene più propriamente allo studio “scientifico”, antropologico, della “cultura”, che analizza le differenze culturali e le alterità, in quanto complesse strutture del sentire, del pensare e dell’agire umano che danno differente senso all’esistenza umana. Tali strutture sono così profondamente radicate nel cuore e nelle azioni di una popolazione da consentire ai singoli di superare gli effetti del mutamento storico, riproducendo e insieme reinterpretando lo stesso mondo da cui provengono. Le “culture”, in tale maniera, sono forme di vita che contengono sia un nucleo di identità stabile, sia altre risorse per affrontare, per vari gradi di innovazione, il processo storico entro cui sono sempre inserite.

    È dall’età moderna in poi che, parallelamente al formarsi di grandi istituzioni quali lo Stato, la Scienza, la Stampa e la Scuola, la nozione di cultura assume importanza progressiva, sino alla nascita della disciplina che ne farà oggetto specifico di studio nel secondo Ottocento (l’antropologia culturale e sociale). A differenza di molte altre società extraeuropee che non conoscono tali dicotomie, l’Occidente tende a opporre natura a cultura, orale a scritto, materiale a intellettuale, attribuendo alla serie natura/oralità/materialità il marchio dell’ “arretratezza”, e a considerarla tipica dei “popoli naturali”, ossia dei popoli privi scrittura e ignari della storia. La tesi soffre dell’idea evoluzionistica che l’umanità trascorra dallo stadio “primitivo” (di cui le culture non occidentali, o etnologiche, sarebbero una “sopravvivenza”) a quello “civile” o “progredito” della modernità e della scienza. Oggi vi è totale accordo scientifico sul fatto che tale concetto di “primitivo” è inaccettabile perché risulta viziato dal pregiudizio di conferire all’Occidente una supposta superiorità culturale, ideale e scientifica sulle altre culture (etnocentrismo).

    Astrazione fatta dalle innovazioni tecnologiche su cui il discorso è più complesso, in realtà, a tutt’oggi non esiste alcun criterio assoluto per stabilire che le culture etnologiche siano “inferiori” a quella occidentale, né che l’Occidente costituisca il modello unico su cui comparare e valutare le altre culture. Tale assunto fonda l’odierna convinzione che il mondo, nella sua globalità, sia un insieme di “culture”. I gruppi umani non occidentali sono perciò “etnie” con proprie modalità di lingua e vita e sentire, del tutto diverse per “tratti culturali” dagli europei ; sono nondimeno da cogliere nella loro rispettiva singolarità e da rispettare in quanto forme storiche uniche e originali del divenire uomo, da cui anche l’Occidente può trarre insegnamento etico (etnocentrismo critico).

    Tale posizione è corretta in quanto conferisce giusta dignità a ogni forma del vivere umano, corre pur tuttavia il rischio di ignorare ogni prospettiva storica. La tesi infatti accredita eguale valore etico ad ogni singola cultura, e considera positiva ogni differenza culturale, senza rendere adeguato conto delle loro reciproche relazioni. Si suppone, cioè, in maniera del tutto ingenua che ogni cultura sia del tutto isolata dalle altre, e quindi non sia né comparabile, né valutabile nei suoi fini o valori (relativismo radicale). Di più, si suppone che la sintesi ideale e materiale che la cultura compie debba derivare da un insieme di caratteristiche sempre stabili e costanti (tesi del “pacchetto fisso dei tratti culturali”).

    Così facendo, si finisce però per dimenticare che le culture sono, come ogni concretizzazione dell’operare umano, organismi in divenire e quindi in continua trasformazione, ove i contatti e i reciproci mutamenti sono, più che eccezioni, modalità quotidiane del vivere. Viceversa, una concezione fissista delle caratteristiche culturali di un popolo o di una nazione, non di rado finisce per sfociare nello “stereotipo”, nello “stigma”, nel “razzismo”, cui non di rado segue la manipolazione ideologica o una strategia separazionistica di “politiche delle differenze” (essenzializzazione delle culture).

    Bisogna invece partire dal presente prossimo e dagli scenari successivi alla Seconda guerra mondiale: la decolonizzazione, i nuovi stati postcoloniali, il “quarto mondo”, la generalizzazione del mercato, la nuova funzione dei media, le migrazioni, il “postmoderno”. Allo studio delle “culture” quali sistemi chiusi, succede la consapevolezza dei “sincretismi” e dei “meticciati” e che collegano popoli e gruppi sociali in mondi immaginari e in pratiche simboliche una volta distinti ed esclusivi (contaminazioni). È la realtà della connessione globale che si impone e costringe alla revisione del concetto di cultura (globalizzazione culturale).

    In particolare cresce la consapevolezza che ogni gruppo sociale non sia più riducibile a una comunità caratterizzata da tratti propri o unici (lingua, religione, politica, alimentazione etc.) quanto il risultato dei processi di ibridazioni, imprestiti e imitazioni di altri segni di altri luoghi e di altri tempi dell’intera “ecumene globale”. I processi di formazione possono essere quelli della pacifica convivenza o del più acre conflitto, rimane fermo che ogni periferia del mondo tende a trasformarsi in “località” (place). Una delle conseguenze di tale assetto mondiale è che anche l’antropologo è costretto a ritornare all’Occidente per studiarlo quale luogo di una nuova particolare cultura, superando l’opposizione Occidente/Alterità (rimpatrio dell’antropologia).

    L’uso pubblico attuale del concetto di cultura si avvicina molto alla sua versione essenzializzata, con la quale si pensa alle culture quale arcipelago di isole tendenzialmente integre e reciprocamente separate. Tale uso appartiene però a uno stadio oramai di gran lunga sorpassato dell’antropologia scientifica, quando gli studi avevano soprattutto a cuore la difesa delle culture etnologiche dall’avanzata del colonialismo e dagli interessi delle metropoli occidentali. Oggi i problemi sono diversi, e dipendono dalla forza e dal modo con cui i popoli e i gruppi sociali si muovono sull’arena mondiale (dalle migrazioni in poi) producendo contatti di vario tipo, (dalla pacifica integrazione alla resistenza armata) piuttosto che dalla loro (presunta) purezza e separatezza geografica o tecnologica.