Il sale della terra
Fred Dallmayr 8 April 2010

Quello che segue è il testo del discorso tenuto dall’autore ad un convegno organizzato dalla rivista “30 Giorni” e svoltosi a Roma a Palazzo Giustiniani, nella Sala Zuccari, l’11 marzo 2010.

Oggi si parla molto di “post-secolarismo”, un termine coniato da Jurgen Habermas e rapidamente adottato dal dibattito contemporaneo. Tuttavia, vorrei suggerire che vi è anche un’idea di post-secolarismo nelle sacre scritture. In Matteo 5-13, leggiamo che ai credenti viene detto: “Voi siete il sale della terra”. La frase significa che chi crede non deve né identificarsi con la terra né allontanarsi da essa. In questo senso, chi crede non deve essere né materialmente laico né radicalmente anti-materialisti e anti-secolare (dunque, forse, post-secolare).

Secondo la mia opinione, la fede deve affrontare due tentazioni o sviamenti fondamentali: la religione può ritirarsi dal mondo in una “montagna sacra” e, in tal modo, separarsi da esso; ciò può essere definita “privatizzazione” della fede. Oppure, la religione può penetrare nel mondo al punto da esserne assorbita o di fondersi in esso: questa la si può definire “secolarizzazione” e (in alcune circostanze) “politicizzazione” della fede. In entrambi i casi, è evidente che la fede religiosa non può costituire il “sale della terrra”.

Riflettendo sulla frase della Bibbia, il filosofo francese Paul Ricoeur ha scritto queste memorabili parole: “Dopo molti secoli, stiamo riscoprendo ciò che significa ‘il sale della terra’. Stiamo scoprendo che il sale serve a dare sapore e la luce a illuminare e che la Chiesa esiste nell’interesse di coloro che non vi appartengono”. Nella sua visione, il passo di Matteo ci esorta a trovare una via intermedia, situata né totalmente all’interno del mondo né al di fuori di esso. Soltanto seguendo tale via la fede potrà essere il sale, vale a dire il lievito che trasforma il mondo. Ma si tratta di una via difficile da trovare e da tracciare.

Per spiegare tale difficoltà, permettetemi di richiamare la vostra attenzione su un episodio concreto (perché i fatti concreti sono quelli che meglio ci fanno comprendere i principi astratti). L’evento a cui mi riferisco è accaduto lo scorso maggio (precisamente il 17 maggio 2009), in occasione della cerimonia di consegna delle lauree all’Università di Notre Dame (di cui faccio parte). Il presidente della nostra Università, Padre John Jenkins, aveva invitato il presidente Barack Obama a tenere il discorso celebrativo. Di per sé, l’invito non era nulla di straordinario perché l’Università, in tale occasione, ha sempre invitato leader nazionali. In questo caso, tuttavia, l’invito ha innescato una furiosa polemica dovuta alla posizione “pro-choice” del presidente (in contrasto con quella “pro-life” dei cattolici). Prima di proseguire devo ricordarvi i due principi fondamentali contenuti nel Bill of Rights della Costituzione americana: primo, che non ci può essere una “imposizione di religione”, il che significa che la Chiesa non può governare il Paese né costituire una “teocrazia”; in secondo luogo, che è garantito il “libero esercizio della religione”, vale a dire che le Chiese possono liberamente esprimere il loro punto di vista in seno alla società civile.

L’invito al presidente ha scatenato un putiferio. In città sono arrivati dei gruppi di pressione organizzati e anche all’interno del campus universitario ci sono state manifestazioni contrarie alla visita di Obama. Il vescovo cattolico ha persino condannato l’invito, decidendo di boicottare l’evento. Gli attivisti “pro-life” hanno emesso un ultimatum: l’Università avrebbe dovuto annullare l’invito, oppure il presidente cancellare la sua visita, altrimenti minacciavano di impedire la cerimonia di consegna delle lauree. Come poi si è visto, é prevalso un atteggiamento più ponderato. Malgrado qualche provocatore, il corpo docente e la stragrande maggioranza degli studenti hanno accolto il presidente Obama con calore. Nel suo discorso, il presidente ha sottolineato la necessità di un dibattito pubblico civile, anche e soprattutto nel caso di forti divergenze d’opinione. Un dibattito di questo genere, ha dichiarato Obama, richiede “cuori e menti aperte e parole oneste per il perseguimento del bene comune”. A sua volta, il presidente Jenkins ha accolto Obama come il leader eletto dalla Nazione. Con parole ammirevoli, il suo discorso ha seguito quella via intermedia a cui mi riferivo poc’anzi.

Egli ha dichiarato: “Mi rattrista che molti amici della Notre Dame abbiano sostenuto che l’invito al presidente Obama indica ambiguità nella nostra posizione sul tema degli insegnamenti cattolici. L’Università ed io siamo inequivocabilmente convinti della sacralità della vita umana e della necessità di proteggerla dal concepimento alla morte naturale”. Nel fare tale affermazione, Jenkins ha chiaramente evocato e utilizzato il privilegio garantito dalla Costituzione americana in tema di “libero esercizio della religione”. Ma Jenkins ha anche aggiunto: “Notre Dame ha una lunga tradizione di inviti e di conferimento di lauree honoris causa ai presidenti degli Stati Uniti…Questo è il modo in cui l’Università esprime il proprio rispetto per il leader della Nazione e per l’Ufficio del presidente. Nella tradizione cattolica, la nostra fedeltà va, prima di tutto, verso Dio in Cristo; tuttavia siamo chiamati a rispettare, a partecipare e a contribuire alla società. Come scrive San Pietro, dobbiamo onorare il capo che guida l’ordinamento secolare”. Con questa affermazione, il presidente Jenkins ha evocato e reso onore all’altro principio della Costituzione americana che proibisce l’“imposizione” della religione.

Padre Jenkins, nel suo discorso, ha reso omaggio anche ad uno dei suoi predecessori all’Università di Notre Dame: Padre Theodore Hesburgh, che ne è stato presidente per 35 anni e che ha portato l’Università a godere del prestigio attuale. Padre Hesburgh ha detto che un’Università cattolica dovrebbe essere allo stesso tempo un faro e un crocevia: un faro per mezzo del quale la fede religiosa illumina il mondo, e un crocevia in cui persone di tradizioni, fedi e culture diverse possono incontrarsi ed apprendere reciprocamente. Su scala ridotta, un’Università religiosa offre così un contributo a quello che, su scala globale, viene definito “dialogo tra le civiltà”. Un tale dialogo persegue anche il fine della verità e della giustizia, invitando allo steso tempo gente di diverso orientamento a partecipare a tale ricerca.

Fred R. Dallmayr è professore del Dipartimento di Scienze Politiche e Filosofia presso l’Università Notre Dame, Indiana.

Traduzione di Antonella Cesarini

SUPPORT OUR WORK

 

Please consider giving a tax-free donation to Reset this year

Any amount will help show your support for our activities

In Europe and elsewhere
(Reset DOC)


In the US
(Reset Dialogues)


x