Costituzione in Marocco: un passo lungimirante verso una vera democrazia parlamentare
Giuliano Amato 26 July 2011

Questo denota sia la lungimiranza del re che si muove in anticipo, previene la piazza e si rende anziché vittima protagonista del cambiamento, sia la sua capacità di sintonizzarsi con le maggiori forze politiche del paese. Naturalmente il risultato al punto al quale siamo arrivati è ancora lontano dalle democrazie parlamentari europee e non europee che conosciamo al nostro tempo. Però se pensiamo che il processo attuato dal re si colloca come genus nel passaggio ottocentesco da monarchie tendenzialmente assolute a monarchie costituzionali, va detto che qui siamo già molto al di là di quei processi: siamo a un punto intermedio tra quello da cui partirono i regimi parlamentari della vecchia Europa e quello a cui sono arrivati. E considerando che il percorso che ha portato a questo punto intermedio è stato bruciato in un numero di anni molto breve, si può ragionevolmente pensare che procedendo così il regno del Marocco sarà tra breve, una monarchia costituzionale non diversa da quella britannica.

Ripeto, siamo ancora a metà strada. Ma se io penso alle costituzioni octroye dell’ottocento, noto subito una differenza: questa non è stata imposta o concessa dal re alla nazione, ma votata dal corpo elettorale per entrare in vigore, e dice che la sovranità appartiene alla nazione e non al re. Questo è molto importante perché il re si viene a configurare non come la fonte della sovranità, ma come una delle massime istituzioni costituzionali, come è il capo di Stato in qualunque regime costituzionale.

Si aggiunga che la caratterizzazione di questa come una forma costituzionale nella quale il potere del sovrano si colloca in un sistema di poteri e non al di sopra dei poteri è rafforzata dall’adozione esplicita della divisione dei poteri. E dal fatto che questa divisione si presenta un po’ all’americana, tanto come divisione orizzontale tra i poteri dello Stato, quanto come divisione verticale tra i poteri conferiti allo Stato e quelli degli enti decentrati di governo. Il sistema costituzionale prevede infatti una forma di regionalismo che distribuisce il potere.

Certo siamo ancora a quel tipico dualismo che caratterizzava le monarchie costituzionali dell’800. La formula della doppia fiducia che chi governa deve avere dal parlamento e dal re. Tipico delle situazioni di trapasso. Per questo dico che siamo a metà strada. C’è poi un potere di scioglimento del parlamento che è assai più forte di quello che possiedono oggi la maggioranza dei capi di Stato occidentali, che entrano molto meno nel circuito politico di quanto sia abilitato a fare dalla Costituzione marocchina il re. Va del resto positivamente sottolineato che il re debba comunque nominare il primo ministro dal partito che ha avuto più voti. Insomma non ha una libera scelta del primo ministro. E questo crea un piano inclinato verso il maggior peso futuro della fiducia del parlamento.

Un altro punto importante riguarda il potere giudiziario. Quanto riuscirà davvero ad essere davvero indipendente? Nelle democrazie che sono venute crescendo nella vecchia Europa ci sono voluti decenni perché la giustizia riuscisse ad affermarsi come potere indipendente. Nella Costituzione marocchina sembrerebbe che ci siano alcuni principi che già appartengono alle costituzioni delle democrazie mature: l’indipendenza è affermata, così come è affermata l’inamovibilità dei giudici. Bisognerebbe però essere certi dell’effettività delle norme e della loro applicazione.

Ma il vero tema in realtà è quello delle libertà dei cittadini, in tutti i sensi, e della libertà di religione in particolare, perché siamo in un paese a maggioranza musulmana che proclama quella musulmana come religione di stato in un articolo un po’ arduo (il numero 3) anche in termini concettuali, che dice che è quella musulmana la religione dello Stato, il quale garantisce la libertà di religione. Su questo punto vanno fatte alcune sottolineature. Positivo è il riconoscimento delle diversità etnico religiose come componenti della nazione marocchina, che rafforza evidentemente il ruolo delle minoranze.

Va poi detto che la religione di Stato è stata conservata in paesi dove la libertà dei culti diversi da quello che è religione di Stato è di sicuro esistente. L’esempio è la Gran Bretagna, dove il capo dello Stato è anche capo della confessione anglicana, il ché non attenua la libertà degli altri.

C’è tuttavia la spinta che può venire dall’interno della religione musulmana, con le sue regole e aspettative, in funzione di una non piena libertà religiosa degli altri. Fenomeno che può passare non attraverso le leggi ma attraverso quella che Tocqueville chiamava la dittatura della maggioranza. Ciò che avviene in più paesi, ed è di particolare evidenza nella Turchia di oggi, dove a prescindere dal sistema legislativo che è ancora fortemente kemalista, la società preme soprattutto nei confronti delle donne perché si torni al passato.

Si tratta di vedere quanto, e se, questa pressione ci sarà. Io simpatizzo con quegli studiosi musulmani i quali mettono in dubbio che il pluralismo intrinseco all’islam, che non ha una struttura gerarchica, sia compatibile con l’essere l’islam religione di Stato. Perché l’essere religione di Stato implica che ci sono dei credenda, principi e regole che dalla religione transitano allo Stato.

Ma allora, cosa significa che le autorità dello Stato acquistano quella auctoritas interpretativa che nessun imam ha nei confronti degli altri? Questa non è una critica, ma una domanda importante, alla quale il futuro ci aiuterà a rispondere.

In conclusione si può dire che il percorso sul quale si è messo Muhammed VI, senza dubbio, porta verso la democrazia parlamentare. E lo fa con molta più forza di quanto non stia accadendo nei paesi che hanno avuto le rivolte. Perché lì gli esiti sono tutt’altro che chiari.

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