Tra buone intenzioni e una tregua che non regge
Federica Zoja 16 March 2010

A poche settimane dalle elezioni per il rinnovo del Parlamento e della Presidenza nazionali e regionali (Sud Sudan), non si fermano i combattimenti fra le forze armate di Khartum e i ribelli dell’esercito di Liberazione del Darfur (Sla/Slm) nella regione di Jebel Marra. Eppure, solo poco tempo fa, segnali di schiarita avevano fatto sperare per il meglio. Due i passi significativi del governo guidato dal presidente sudanese Omar Hassan Al Bashir a fine febbraio: la tregua con i ribelli del Movimento per la giustizia e l’uguaglianza (Jem, il maggiore gruppo – ma non il solo – insorto in Darfur a difesa dei diritti della regione confinante con il Ciad), e l’accordo di pace, firmato in Qatar, con N’Djamena, da sempre considerata alleata del Jem.

A riprova delle buone intenzioni di Khartum anche la cancellazione della condanna a morte per 100 ribelli del Jem e la libertà per altri 57. Ma la fragilità degli accordi sottoscritti è sotto gli occhi di tutti e contraddice i toni trionfalistici del presidente Al Bashir, che alla televisione di Stato e agli organi di stampa internazionale ha dichiarato “finita” la guerra civile in Darfur. Il Partito del congresso nazionale (Ncp), di cui Al Bashir è il numero uno, sembra cercare una nuova stabilità, forse in preparazione all’appuntamento elettorale, forse per placare l’ostilità occidentale verso il suo governo, ma non tutti gli attori dell’intricato scenario politico sudanese puntano alla pacificazione, anzi: da qui il riaccendersi di scontri furibondi fra le truppe governative e i ribelli dell’Esercito di liberazione del Sudan (Sla/Slm), formazione che infatti non ha firmato la tregua.

Date le premesse sembra difficile che la popolazione sudanese possa recarsi alle urne o che l’Accordo di pace comprensivo del 2005 (Cpa) possa riprendere il suo cammino verso la totale applicazione. Al momento, tuttavia, una pace ‘vera’ farebbe comodo ad Al Bashir, perché permetterebbe al suo esecutivo di rimanere al proprio posto, nonostante le accuse di crimini contro l’umanità e crimini di guerra formulate dalla Corte penale internazionale (Cpi) contro di lui nel luglio 2008. Il presidente-colonnello è ritenuto responsabile per le atrocità commesse in Darfur dai guerriglieri arabi Janjaweed.

Difeso dalla Lega Araba, dall’Unione Africana e dall’Organizzazione dei paesi islamici, dietro le quinte è probabile che Omar Al Bashir sia stato spinto dagli alleati a riprendere il percorso del processo di pace chiudendo i fronti interni ed esterni: quello con la grande regione del Sud, a maggioranza cristiana e animista; quello con i ribelli del Darfur e dell’est. Decisiva l’opera della diplomazia egiziana, che conserva per ragioni storiche ed economiche forti legami con il Sudan. Sulla stabilizzazione del tormentato vicino ha puntato tutto anche il Ciad, con l’improvvisa visita del presidente Idriss Deby a Khartum lo scorso 8 febbraio. Un passo storico, cui la stampa di lingua araba ha dato ampio risalto. Secondo l’accordo firmato da Ciad e Sudan a Doha, agli annunci dovranno seguire concreti sviluppi entro il 15 marzo, con incarichi di governo per il Jem. Il tempo stringe.

Nel frattempo si avvicina l’appuntamento elettorale. Rinviate a più riprese per due anni, le elezioni, le prime multipartitiche dal 1986 a questa parte, dovrebbero svolgersi dall’11 al 13 aprile. A fine marzo, invece, la conferenza internazionale per il Darfur, al Cairo. Seguirà il referendum per l’indipendenza del Sud Sudan (circa 8 milioni di abitanti), previsto per il gennaio 2011.

Ad aprile, il principale partito che sfiderà Al Bashir sarà il Movimento di liberazione del popolo sudanese (Splm), ex fazione dello Sla ora nella coalizione di governo. L’Splm, che punta a superare le differenze religiose fra musulmani e cristiani e domina il sud cristiano e animista, rappresenta un quarto dell’elettorato. L’Ncp di Al Bashir, invece, rappresenta il nord, in prevalenza arabo e musulmano.

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