Quel mix di razzismo, ‘ndrangheta e paura
Gian Antonio Stella intervistato da Federica Zoja 9 February 2010

Perché Rosarno ha avuto così grande e prolungata visibilità sui mezzi di comunicazione? E’ vero che alcuni esponenti politici hanno strumentalizzato questo episodio?

A Rosarno si sono mischiate tre cose diverse. Innanzitutto, la truffa all’Europa e all’Inps: le cosche avevano parenti e amici che, sulla carta, facevano i braccianti nelle finte cooperative agricole. Poi, in realtà, usavano gli immigrati neri per lavorare. E questo aspetto è stato subito colto anche strumentalmente dagli anti-meridionalisti del Nord e cavalcato. Poi, a Rosarno c’era lo sfruttamento da parte della malavita, che a un certo momento ha deciso di liberarsi di questi uomini. La ‘ndrangheta ha scoperto che non ne valeva la pena: meglio prendere i contributi europei, rinunciando a raccogliere i mandarini, tanto la differenza fra raccogliere la frutta e pagare ‘questi qua’ oppure lasciarla sugli alberi e prendersi solo i contributi è poca cosa. E hanno optato per liberarsi degli immigrati. E in terzo luogo, c’è stato anche del razzismo vero e proprio, che si è scatenato quando questi poveracci hanno reagito. Non era la prima volta che gli sparavano addosso e loro hanno reagito, e lì è successo il disastro perché poi hanno spaventato la gente, e in questo hanno sbagliato anche i media diffondendo l’allarmismo. Infine, il fatto di aver buttato fuori dal paese gli immigrati e non altri è negativo. C’è da riflettere: hanno sparato a loro e non ad altri.

Tutti gli abitanti di Rosarno sono passati per razzisti, mentre solo dopo giorni si è cominciato a parlare delle responsabilità degli ‘ndranghetisti.

Un ascoltatore di Prima pagina (su Radio3, condotto da Stella) ha chiamato qualche mattina dopo i fatti, sottolineando questo aspetto: a soffiare sul fuoco è stata la ‘ndrangheta. Questo è chiaro e plateale, io non dico che la Calabria sia razzista, però ci sono dei sentimenti razzisti che si stanno diffondendo e a Rosarno sono esplosi. Una guerra fra poveri che avevamo già visto a Ponticelli (periferia orientale di Napoli).

Si potrebbe dire che, in quanto a percezione di instabilità e pericoli in arrivo dall’esterno, Nord e Sud vivono un percorso parallelo?

«Per chi ha paura tutto fruscia», diceva Sofocle. Io credo che il nostro sia un paese impaurito, che avverte in modo confuso un’inquietudine forte, che ha paura di tutto, della crisi economica, di perdere il lavoro, di non avere domani la pensione, della tbc e dei pidocchi, che gli immigrati avrebbero riportato in Italia e che non c’erano più. E dentro questo ‘tutto’ c’è anche la paura degli altri, che fanno sì lavori che non ci piacciono, però, dicono certi ascoltatori che chiamano in radio, “se adesso siamo messi così, le badanti le possono fare anche le nostre donne”. E non è vero, perché nessuna italiana accetterebbe di lavorare sei giorni e mezzo alla settimana restando a disposizione anche la notte.

Da un punto di vista europeo, in termini di intolleranza verso lo straniero, l’Italia affronta ora ciò che altri paesi hanno già vissuto? Ad esempio la Francia, in cui il fenomeno migratorio è più consolidato, vista la storia coloniale di Parigi. Insomma, dopo le banlieues in fiamme adesso tocca a noi?

La Francia ha indubbiamente avuto grandi problemi, teniamo presente che Le Pen (Jean-Marie Le Pen, presidente del partito di estrema destra Fronte nazionale) è arrivato al ballottaggio per le presidenziali (nel 2002). Ma si è visto che, quando una destra seria riesce ad affrontare alcuni temi lasciando fuori il razzismo, allora è possibile far rientrare fenomeni come quello di Le Pen, la cui fase propulsiva è finita. La destra gollista francese non è mai stata razzista, l’unico posto in cui due ministri possono chiamare i neri ‘bingo bongo’ è l’Italia.

Il confine del linguaggio politico – sotto il grande alibi della ‘provocazione’ – continua a spostarsi in avanti. Suonerà mai un campanello d’allarme? E intanto si acuisce la spaccatura fra Nord e Sud, l’antimeridionalismo riprende vigore…

Forse il campanello suonerà quando se ne renderà conto Berlusconi. Io credo che abbia una responsabilità molto seria, non penso sia un razzista, ma per motivi tattici ha legittimato il linguaggio della Lega, come in nessun altro paese europeo è concesso. Se si pensa al leader olandese Geert Wilders, che passa per un razzista a casa sua, ebbene lui fa dei discorsi che qui sarebbero considerati moderati: “Non voglio buttar fuori nessuno, l’Olanda ha già tanti immigrati, dunque bisogna dire basta. Siamo stati troppo tolleranti con chi predica l’intolleranza”, questo dice. Lo stesso valeva per Pim Fortuyn (leader del partito Leefbaar Nederland, Olanda vivibile, assassinato nel 2002 da un attivista di estrema sinistra), il quale diceva che la politica di grande apertura olandese era stata sfruttata dagli ‘altri’.

E va sottolineato che gli olandesi hanno avuto esempi di aggressività in casa loro, come l’uccisione di Fortuyn e di Van Gogh, a noi per ora, fortunatamente, sconosciuti.

Niente a che vedere con il linguaggio del leader di riferimento della Lega nel parlamento europeo, Mario Borghezio. La volgarità e la violenza verbale non è una caratteristica solo della Lega, ma negli altri paesi nessun altro partito di governo usa i toni dei leghisti. In Danimarca, ad esempio, Pia Kjaersgaard (leader e co-fondatrice del Partito del popolo danese) mai al mondo direbbe le cose che dicono Bossi o Calderoli, pur essendo dura sulla difesa dei valori danesi, ferma sull’immigrazione, durissima sulla religione, ma non razzista come i nostri. L’unico altro caso di un partito vicino alle stanze del potere che parla coi toni dei leghisti è quello dei nazionalisti slovacchi che vorrebbero buttare fuori gli ungheresi dalla Slovacchia. Ma non sono al governo: lo appoggiano dall’esterno. La destra d’Europa è dura nella difesa dei propri valori, ostile all’ingresso della Turchia e all’immigrazione selvaggia, ma non ha la violenza verbale della Lega. E nel razzismo la forma è sostanza. Dire “non possiamo accogliere tutti” è diverso da dire “basta negri” o “basta musi gialli”. E Berlusconi, piaccia o no, ha delle forti responsabilità nello sdoganamento di questo linguaggio. Capiamoci: è tutto il linguaggio della politica che si è imbarbarito. Ci sono risse furibonde anche negli altri parlamenti, ma “zitta tu brutta troia” oppure “Sei una checca flaccida”, il giorno in cui è caduto Prodi, si sente solo da noi.

Eppure sembra che la Lega stia intercettando voti anche in meridione, in quanto ‘unica forza politica che difende i valori italiani’.

Non credo sia così davvero, per ora Silvio Berlusconi riesce a tenere insieme le diverse componenti del Pdl. Mentre l’evoluzione di Gianfranco Fini mi sembra portarlo a distinguersi sempre più dal suo partito: credo si tratti di un cambiamento sincero. Poi, ci sarà anche la volontà di accreditarsi come leader più europeo, questo è possibile. Avrà sicuramente calcolato i rischi. La politica culturale in Italia è un problema serio, delegata da troppo tempo alle televisioni, cioè quelle commerciali di Berlusconi. E in questa deriva xenofoba il Cavaliere ha delle responsabilità: penso a quando disse che Milano è una città africana. D’altronde in tema di razzismo e immigrazione la sinistra gioca in difesa e solo di rimessa da anni, non trova mai le parole giuste per rispondere a tono.

Come considera invece le posizioni della Chiesa in materia?

La Chiesa ha delle responsabilità storiche enormi sul razzismo, ma da Giovanni XXIII in poi c’è stata un’accelerazione epocale. Giovanni Paolo II ha fatto tutto quello che poteva fare, mai nessuno quanto lui si è schierato contro il razzismo. La ‘Pastorale sui popoli viaggianti’ è il documento più aperto mai scritto sui Rom, al punto che sarebbe perfino scomodo da leggere ad alta voce in molte piazze europee. E Papa Ratzinger è sempre stato dalla parte degli immigrati fin da quando era Prefetto della Fede. Lo intervistai dopo il naufragio causato da una motovedetta italiana nel canale di Otranto. Disse: «Si può difendere il patrimonio di un popolo ma non si può vivere in un’isola che si separa, oggi poi, dal resto del mondo. Una chiusura del tipo “noi stiamo bene, non vogliamo quelli che stanno male” è, per me, una politica immorale». Mi sembra che la pensi ancora così. Anche se quando l’Osservatore Romano scaricò Monsignor Marchetto (Segretario del Pontificio Consiglio della Pastorale per i Migranti e gli Itineranti) dicendo che parlava “di sua iniziativa”, evidentemente sapeva di avere qualche copertura vaticana. Insomma, alcuni margini di ambiguità ci sono.

Quanto è importante nella professione giornalistica avere una visione etica?

Questo mestiere non lo puoi fare senza una visione etica delle cose, puoi far male alle persone facendo il nostro mestiere e capita di commettere degli errori. Chissà quanti ne ho commessi anche io. Credo che la dimensione etica del giornalista sia come la santità per un cattolico: difficile arrivarci, ma bisogna provarci. Ad esempio, credo che Oriana Fallaci sia stata una grande giornalista, ma non penso sia stata la migliore, ne abbiamo avuti altri a mio giudizio dello stesso livello o migliori, penso a Tommaso Besozzi, Goffredo Parise, Indro Montanelli, Giorgio Bocca. La Fallaci, nell’ultima parte della sua vita, ha parlato alla pancia della gente, ha suscitato – ed è più facile del contrario – cattivi sentimenti e pensieri. Penso che la sfida sia invece seminare riflessioni, che questo sia davvero utile. È bene tirar fuori il meglio dalla gente, non il peggio.

Come nasce quest’ultimo libro e, in genere, l’esigenza di approfondire un soggetto oltre i confini limitati dell’articolo?

Mi capita di scrivere un libro per impadronirmi davvero di un argomento. Mi prendo un impegno per leggere libri che altrimenti non leggerei mai, per fare ricerche, per tenere la mente aperta. Questo libro andava fatto, avevo in mente di scriverlo da tempo: la prima serata teatrale anti-razzista è del 2004, per la fondazione Corriere della Sera, con Bebo Storti e la Compagnia delle Acque. Poi mi sono deciso nella primavera del 2009, dopo le elezioni europee, quando è stata chiara l’offensiva razzista su base continentale. E il lavoro si è rivelato più complesso del previsto, ho avuto delle difficoltà sui due capitoli dedicati agli ebrei. Era già stato scritto talmente tanto… E poi il tema del razzismo di una parte di ebrei, in Israele oggi, era delicatissimo. Spero di essere stato abbastanza equilibrato, le reazioni sono state positive.

A proposito di argomenti delicati, che cosa ne pensa della proposta di introdurre nelle scuole italiane uno sbarramento del 30% agli alunni stranieri nelle classi?

E’ un discorso complicato: io credo che prima di avere una via Anelli (il cosiddetto Bronx di Padova, chiuso nel dicembre 2009), sia meglio fare scelte amministrative che evitino dei ghetti. Non fanno bene a noi e neanche agli immigrati. Però per fare queste scelte scomode bisogna sgomberare dal tavolo il razzismo. Anche la politica delle quote nella scuola può avere un senso, ma dipende dal modo.

In Italia, in conclusione, c’è la volontà di guardarsi allo specchio, di parlare di razzismo? E perché non c’è il medesimo desiderio di affrontare la questione del Mezzogiorno?

Al momento sì, c’è interesse, anche se sapevo di rischiare andando controvento con questo libro. Diciamo che mi sono sottoposto alla lettura di testi a volte anche ostici e talvolta noiosi per fornire agli antirazzisti più argomenti possibili nella battaglia contro il razzismo, perché non è possibile stare sempre in difesa. Quanto ai razzisti, non potranno dirmi che sono incoerente: per me è inaccettabile che Bossi sia chiamato ‘paralitico di merda’. E gli incontri nelle scuole li faccio proprio per questo, per far venire il dubbio a chi la pensa in modo diverso da me. Quanto alla questione del Meridione, la cosa più brutta è il fatto che il Mezzogiorno non crede più in se stesso, c’è una rassegnazione allo stato di fatto. È già grave che nel riscatto del Sud credano sempre di meno i settentrionali, ma il problema vero è che non ci credono più neanche i meridionali. C’è un pezzo di paese con una concezione ipertrofica di se stesso e un pezzo sempre più incattivito, emarginato e in cerca di piccole rivincite furbine. Poi, per fortuna, ci sono luminosissime eccezioni di gente che va fuori e conquista il mondo, ma la collettività meridionale, purtroppo, non crede più in se stessa.

SUPPORT OUR WORK

 

Please consider giving a tax-free donation to Reset this year

Any amount will help show your support for our activities

In Europe and elsewhere
(Reset DOC)


In the US
(Reset Dialogues)


x