India, Bollywood oltre Bollywood. Realtà e percezione di un cinema che cambia
Maria Grazia Falà, intervista con Mara Matta 8 luglio 2015

Com’è stata la stagione cinematografica indiana dell’anno trascorso?

Dal punto di vista di genere una delle più eclettiche degli ultimi anni, perché ci sono stati moltissimi action film, ancora più commedie, che si concludono ovviamente nei cliché bollywodiani, e qualche film sperimentale. Pure il film indipendente è stato piuttosto attivo, anche se non molto visibile per il grande pubblico.

Per quanto riguarda i generi, negli ultimi anni il cinema indiano ha strizzato l’occhio soprattutto alla comunità dei Non Resident Indians (NRI). Si aprono poi delle parentesi interessanti riguardo a film diventati famosi attraverso il pubblico dei festival internazionali e che si spera siano prima o poi distribuiti.

Vi sono stati esordienti?

I film che hanno avuto più riconoscimenti provengono tutti da registi e da produttori con una certa fama. Ci sono anche dei film di budget inferiore in cui ci sono alcuni giovani, ma nell’ultima stagione non ce n’è stato nessuno di particolare rilievo.

Vi sono stati action movie significativi?

Tra gli action movie interessanti si può citare Gunday (Banditi), e questo al di là della sua qualità artistica. E’ infatti un film (diretto da Ali Abbas Zafar) che ha suscitato molte controversie in Bangladesh per il suo contenuto. Esso corrisponde al classico format dei film d’azione, pieno di effetti speciali, di scazzottate e con la protagonista femminile che è una donna sensuale come Priyanka Chopra. Nonostante questo, e pur essendo una storia buonista che parla di due piccoli rifugiati durante la guerra tra Pakistan e Bangladesh del 1971, che poi diventano banditi (di qui il titolo del film), è diventato famoso per il fatto che, secondo i bengalesi, presenta tale guerra in modo scorretto. La vede infatti come una lotta tra India e Pakistan e non come guerra di liberazione dei bengalesi. Per questo motivo il film è stato messo al bando in Bangladesh in quanto considerato politicamente scorretto e questo lo ha reso ancora più famoso, in quanto molte più persone sono andate a vederlo per vedere come mai avesse suscitato così tanto scalpore politico, e poi ha avuto una grandissima diffusione nel black market.

Non va dimenticato che oltre a film più di cassetta e di richiamo come quello citato o come Bang Bang di Siddaharth Anand o Happy New Year di Farah Khan nel cinema mainstream c’è anche molta cinematografia seria con registi quali Anurag Kashyap, autore di Gangs of Wasseypur (2012), che si potrebbe considerare anche questo come un action movie e qualitativamente valido.

Un caso significativo del 2014 è Haider, di Vishal Bhardwaj, rifacimento dell’Amleto di Shakespeare. Il regista, che non è primo a queste operazioni (sono suoi anche Omkara (2006), che si rifà all’Otello, e Maqbool del 2004, che riprende il Macbeth, entrambi presentati al Festival di Cannes), ha ripreso gli scontri indipendentisti del Kashmir del 1995. Come vede questo film, che coniuga tradizione occidentale con temi più propriamente indiani?

L’Amleto di Shakespeare è una sfida imponente. Il regista, che non è nuovo a queste sperimentazioni, ha alzato il tiro ed è stato molto ambizioso. Infatti è stata una bella idea scegliere un argomento così scottante come gli scontri del Kashmir e coniugarla con un dramma shakespeariano per eccellenza come l’Amleto. Da un punto di vista artistico Vishal Bhardwaj è riuscito a fare un’operazione di successo: infatti il premio che ha vinto in Italia è un riconoscimento molto importante. Inoltre è vero che film come Fanaa (Distrutto per amore), del 2006 (regista, Kunal Kohli), che parlano degli scontri per l’indipendentismo del Kashmir, non sono mai stati così sperimentali. Se si pensa invece ad Haider, è difficile capire che posizione il regista stia prendendo, nel senso che per esempio la figura della madre e di Ofelia sono molto ricontestualizzate nell’ambito indiano. E’ molto indiana infatti la figura della madre che alla fine si pente e si immola pur di salvare il figlio. Da questo punto di vista quindi il film molto ben fatto, però l’idea di coniugare la tradizione occidentale a temi indiani mi sembra negli ultimi tempi un po’ una furberia, nulla togliendo però alle competenze artistiche di Vishal Bhardwaj.

Haider, primo tra i film indiani, ha ricevuto il premio del pubblico al Nono Festival del Cinema di Roma (2014), e quindi ha avuto una visibilità anche italiana, ma che si è tradotta in una sporadica distribuzione nelle sale. In che modo andrebbe interpretata questa scelta?

Haider è stato distribuito molto poco, senza che avesse una diffusione al di là dei cinema d’essais o di nicchie artistiche e intellettuali.

Nonostante che la cinematografia asiatica o il cinema mondiale siano sempre più presenti nelle ns sale – basti pensare alla cinematografia cinese o a quella iraniana, ancora quella indiana stenta ad entrare nelle nostre sale. C’è ancora una resistenza alla distribuzione nelle sale di film indiani, perché si pensa che il pubblico italiano non abbia sviluppato un gusto per questa cinematografia, che viene vista solo in chiave bollywoodiana. In effetti è bello che si sia dato spazio anche a una produzione come questa che può sembrare anche un po’ trash ad un pubblico impegnato. Bollywood però mette in ombra anche un altro tipo di cinematografia, che stenta ad emergere perché la gente non vuole vedere film indiani in quanto pensa che ci saranno tre ore di balletti. Si dovrà ancora lavorare molto per restituire l’idea che la cinematografia indiana è molto più complessa, articolata, eclettica.

PK, di Rajkumar Hirani, è un film satirico di fantascienza e racconta di un alieno che viene sulla terra ma che perde il dispositivo senza il quale non potrà più ritornare all’astronave. Durante il suo girovagare la gente gli dice che solo Dio lo potrà aiutare a ritrovarlo, ma l’extraterrestre vede che il concetto di religione non è un fatto socialmente condiviso. Come andrebbero valutati film come questi che sono anche una satira della società indiana dove la religione ha mille facce?

Sono molto interessata all’uso della satira nelle cinematografie, soprattutto per trattare tematiche quasi intoccabili. E’ difficile parlare di temi quali la religione in modo critico e la satira, anziché addolcire la pillola, scatena controversie ancora maggiori. PK, che vuol dire anche “ubriacone” in hindi, è un film con Rajkumar Hirani e Aamir Khan, che sono stati insieme anche nel film 3 Idiots. Già allora avevano usato questo personaggio alla Forrest Gump, un po’ stralunato. Qui Rajkumar Hirani ha rincarato la dose, perché il personaggio di PK, impersonato da Aamir Khan, non solo è un extraterrestre, ma è anche un outsider, un border line, che però dice cose serissime.

Il BJP, partito di estrema destra hindu attualmente al governo, non ha approvato il film e anche i gruppi ultra-fondamentalisti hindu volevano che il film fosse messo al bando e hanno cercato anche di bloccarne la produzione perché considerato blasfemo. Cose simili erano già successe in India per esempio con un film come Tere Bin Laden (2010) di Abhishek Sharma, che prendeva in giro la paranoia del terrorismo. Il titolo del film giocava sulla doppia accezione delle parole hindi tere, che significa “tuo” e bin (“senza”), del termine inglese laden (“fottuto”) e il nome di Bin Laden. Infatti, combinando i significati, veniva fuori il gioco di parole “sono il tuo Bin Laden” oppure “senza di te [sono] fottuto”. La trama del film è molto semplice: un allevatore di polli che assomiglia a Bin Laden viene utilizzato da un giornalista per fare un falso video sul presunto grande terrorista per ottenere un visto per l’America. Su questa storia si è scatenata una controversia pazzesca perché Tere Bin Laden è un film di Bollywood con un regista indiano, il protagonista pakistano (il reporter), Ali Zafar, ed è ambientato in Pakistan con un riferimento molto poco galante alla complicità dei servizi segreti pakistani con la CIA.

Sia Tere Bin Laden che PK sono commediole all’acqua di rose, ed è ridicolo che possano suscitare diatribe così serie, ma Tere Bin Laden è stato messo al bando anche in Medio Oriente, e ciò dimostra che anche in quel caso la satira fa male. Tornando a PK, il film è stato molto strumentalizzato a livello politico perché sia Rajkumar Hirani che Aamir Khan sono stati molto attenti a puntare il dito contro tutti, non verso un’unica religione, ma verso lo spirito religioso credulone dell’indiano medio, facendo così più una critica sociale che religiosa.

In un film mainstream come Queen, di Vikas Bahl, Rani, una ragazza che viene abbandonata dal fidanzato prima delle nozze, va lo stesso a Parigi e ad Amsterdam a fare da sola la luna di miele. Qui incontra degli amici, ritrova se stessa, e quando il suo ex ragazzo la cerca chiedendole perdono e pronto alle nozze, lei risponde di no. Si può dire che pellicole come queste dimostrano che qualcosa sta cambiando anche nei film bollywoodiani e nella morale indiana?

Mi sembra un tentativo un po’ abortito. Infatti la ragazza sicuramente compie una scelta impensabile fino a qualche anno fa, come quella di lasciare il fidanzato, e poi condivide la stanza con tre ragazzi in un ostello di Amsterdam, la città simbolo della depravazione occidentale. Dispiace però la fine del film, in quanto l’amico di stanza russo, con cui la protagonista aveva instaurato un rapporto molto franco, alla fine non diventa il suo ragazzo perché Rani rimane in fondo la brava ragazza indiana. Queen apre comunque una strada, e quindi si può definire un film gradevole, pur non essendo stato pensato per i festival.

Quanto è stato attivo quest’anno il cinema indipendente? Si può parlare ancora di una netta partizione tra questo e i film mainstream? Perché non è disponibile al pubblico occidentale neanche su DVD e quindi anche ai Non Resident Indians?

Perché il cinema indipendente è di nicchia anche in India e questa è una lotta. È molto difficile infatti promuoverlo anche all’interno della stessa India anche perché è in lingue minori, non tra le ventidue lingue ufficiali riconosciute dalla costituzione indiana. Se i film sono in lingue tribali è molto difficile trovare un pubblico pure all’interno della stessa India, anche se ora le cose stano un po’ cambiando. Ha iniziato il regista tamil Mani Ratman, che ha capito che se faceva film solo in questa lingua non avrebbe avuto mercato. Ha quindi girato film due volte, una volta in hindi e una volta in tamil, addirittura con attori diversi. Nonostante tentativi come questi ancora trovare un pubblico per le cinematografie regionali che sono generalmente molto impegnate (trattano per esempio di stupri di donne tribali da parte dell’esercito, di espropriazioni di terre ai contadini, ecc.) è molto difficile. Si tratta di tematiche scottanti che il governo non ama pubblicizzare, che hanno bisogno di un pubblico forse più motivato perché molto spesso si va a vedere un film di Bollywood perché è entertaining e non mostra drammi “duri” da digerire che sono quasi etnografici. È ovvio quindi che DVD di queste pellicole non siano disponibili neanche ad un pubblico indiano e che simili film piacciano solo alle élite intellettuali. Gli stessi occidentali che le studiano non sanno esattamente la consistenza numerica di tali produzioni.

Cosa si può dire della differenza tra cinema hindi indipendente e cinema bollywoodiano? Si può parlare ormai, nel 2015, di una partizione simile?

Da quello che so come organizzatrice di festival – sono membro di Netpac (The Network of the Promotion of Asian Cinema) – esiste una cinematografia indipendente in lingua hindi, però è difficile differenziarla da quella mainstream, perché tutti i cineasti in lingua hindi si trovano a fare i conti con Bollywood. Attualmente, tuttavia, i film studios hanno davanti un pubblico con delle aspettative un po’ più alte, quindi si può affermare che tra cinematografia hindi indipendente e cinematografia bollywoodiana c’è una commistione. Il cinema d’arte come quello di Satyajit Ray oggi non esiste più, ma registi di Bollywood come Nishikant Kamat hanno complessità artistiche e stilistiche da cinema parallelo.