Sinai: No man’s land
Giuseppe Acconcia 23 maggio 2014

La polizia promette che al Arish sarà più sicura con il nuovo muro, alto tre metri e chiuso da filo spinato. Saranno previsti dieci varchi per l’ingresso in città, equipaggiati con video camere e dispositivi anti-terrorismo. «La città sarà isolata per quattro mesi e le spese per la costruzione del muro supereranno i 12 milioni di euro. Nulla si può risolvere con un muro e basterà un bombardamento per distruggerlo», ci spiega Hussem, 29 anni, proprietario di un caffé del centro. «Il muro separerà le persone e non farà che accrescere l’odio per l’esercito che arresta e uccide civili senza ragione», continua il giovane beduino.

Una guerra senza esclusione di colpi

Sono oltre 500 i morti nel Sinai dal 3 luglio scorso (438 poliziotti e 57 civili, secondo le fonti ufficiali), mentre centinaia sono i jihadisti uccisi. «I soldati rendono la vita impossibile ai civili, 6mila persone sono state arrestate nel Sinai negli ultimi mesi e molti di loro non sappiamo dove siano. I militari bruciano le fattorie nei dintorni delle caserme per questo ora molti giovani locali appoggiano l’unica alternativa all’esercito: gli islamisti», continua Mahmud, 27 anni, studente di ingegneria all’Università di al Arish. Le autorità arrestano e minacciano giornalisti stranieri ed egiziani, mentre spesso cellulari e internet non funzionano per oltre 8 ore al giorno.

Ma la guerra nel Sinai non è come le altre. «Si tratta di una guerra contro i civili. Ci sono certamente dei terroristi ma l’esercito persegue una punizione collettiva», ci spiega Ismail Alexandrani, ricercatore del Centro per i diritti economici e sociali, diretto dal candidato alle presidenziali del 2012, Khaled Ali. «Nel gennaio 2014 per la prima volta nella storia militare egiziana, l’esercito ha attaccato un aereo combattente di una milizia jihadista e non di un paese straniero», continua Ismail. Nel Sinai i militari hanno ucciso bambini, come nel villaggio El Lefetat, distrutto ospedali, moschee e scuole, come a El Dihinia.

L’arrivo della Fratellanza

Sono 24 le tribù (qabila) che vivono nel Sinai. Le due principali sono Sawarka e Tarabin che gestiscono i più ingenti appalti pubblici e controllano le attività di contrabbando con la vicina Striscia di Gaza. Ogni qabila ha il suo sheikh (leader tribale). Sebbene la regione si stia trasformando sempre di più nella terra di scontro tra le intelligence di mezzo mondo, come è avvenuto in Siria e Libia, qui le divisioni tribali non devono essere esagerate, non siamo in Yemen o in Afghanistan. Tant’è vero che negli ultimi mesi i giovani beduini, di ogni qabila, stanno entrando sempre più saldamente nei ranghi dei gruppi jihadisti per contestare l’autorità statale. Lo sfaldamento delle dinamiche tribali e la crescita dei poteri informali hanno avuto un impatto sulle dinamiche nazionali. E lentamente i vecchi sheykh hanno perso la loro centralità (cosa che avveniva già ai tempi di Mubarak quando venne imposta la nomina di un rappresentante governativo all’interno di ogni tribù).

L’ascesa al potere dei Fratelli musulmani nel 2012 coincideva con l’indebolimento del ruolo del rappresentante governativo in favore di un più ampio spazio concesso a nuovi arricchiti con la mediazione di islamisti e salafiti. Neppure la Fratellanza sembrava avere le redini di questa No man’s land, esclusi i centri urbani di Al Arish e Bir el Abd. E così in occasione del rapimento di sette poliziotti nel maggio 2013, l’ex presidente Mohammed Morsi ammise di non sapere come si stessero svolgendo le operazioni e diede «carta bianca» all’esercito per la soluzione del caso.

Eppure, Morsi è stato il primo presidente a incontrare i rappresentanti delle qabila nel palazzo presidenziale al Cairo, conquistandosi non poca stima da parte dei leader locali. «Da quel momento Morsi è apparso agli occhi dei leader tribali più rispettabile del Consiglio supremo delle Forze armate (Scaf)», aggiunge Ismail. Non solo, nell’anno di presidenza Morsi, i Fratelli musulmani hanno in parte scompaginato la tradizionale distribuzione degli appalti pubblici permettendo la sigla di un contratto di 25 milioni di dollari con il Qatar alla tribù al Manai.

Le promesse mancate

Morsi puntava così sulla distruzione dei tunnel per favorire un accordo con Qatar e Hamas con lo scopo di massimizzare i benefici dei commerci legali con Gaza. E così negli ultimi due anni, sono stati distru­tti circa 1.300 tun­nel sot­ter­ra­nei che con­sen­ti­vano il pas­sag­gio dal Sinai verso Gaza di merci neces­sa­rie per il sostentamento della Striscia e usati per il contrabbando di armi, cemento, tabacco, vetture, ecc. Morsi aveva anche concesso il passaporto egiziano a oltre 13mila palestinesi. I documenti saranno presto annullati in seguito alla decisione della magistratura egiziana di dichiarare Hamas movimento terroristico nel febbraio scorso. In questo modo, Morsi avrebbe voluto mettere in sicurezza il confine con Gaza. Non solo, i Fratelli musulmani hanno più volte annunciato l’intenzione di riformare il diritto commerciale locale concedendo la proprietà terriera ai beduini: una vera rivoluzione in una regione dove un beduino su due vive sotto la soglia di povertà. Invece, dopo il colpo di stato, Sisi ha impedito ogni commercializzazione formale e informale della proprietà terriera nella Zona C (5 kilometri entro il confine con Israele). Neppure il progetto islamista, già concepito da Mubarak, di una zona di libero scambio nel Sinai ha avuto seguito.

Se è vero che nella mediazione nell’attacco israeliano a Gaza (Pilastro di Difesa) dell’autunno 2012, il leader dei Fratelli musulmani ha assunto gli stessi orientamenti verso Tel Aviv dell’ex presidente Hosni Mubarak, Israele ha gioito il giorno della deposizione di Morsi, mentre gli Stati uniti abbandonavano gli islamisti al loro destino. Da quel momento Tel Aviv ha appoggiato la «lotta al terrorismo» di Sisi, con l’assassinio in territorio egiziano di Ibrahim Awidah, leader di Ansar Beit el Maqdis (Abm) e il rapimento di Wael Abu Rida, leader del movimento palestinese della Jihad islamica.

Tra stato e «terrorismo»

Il Sinai è la culla di gruppi jihadisti. Uno di questi è proprio Abm, che ha rivendicato i principali attentati dinamitardi, kamikaze, contro turisti stranieri e ufficiali dell’esercito negli ultimi mesi. La novità è l’alleanza tra questi movimenti con i giovani beduini e contrabbandieri. «Mentre i militari arrestano chiunque senza motivo, i jihadisti sono gli unici a scontrarsi con l’esercito, per questo i beduini li acclamano», considera Mahmud. Agli occhi della popolazione locale, i jihadisti sembrano gli unici ad opporsi all’emarginazione delle popolazioni beduine. Abm ha strumentalizzato lo scontro tra esercito e islamisti della Fratellanza. In un video su Youtube, lo scorso dicembre, il gruppo, saldamente presente tra le montagne e nei deserti del Sinai, ha annunciato che la sua missione è passata dal lancio di missili contro Israele e dalla distruzione di gasdotti a una campagna contro le forze armate egiziane.

E così, i beduini sono le prime vittime del pericoloso scontro politico tra esercito, Fratellanza e le sue conseguenti derive jihadiste. Anche il ricorso alla sharia (legge islamica) o al diritto tribale (urf), che qui è il principale mezzo di soluzione delle controversie, è stato strumentalizzato dall’una e dall’altra parte nel tentativo di conquistarsi il favore popolare. «Per esempio, nel 2012, fu l’esercito a convocare nel quartier generale dell’Intelligence militare di al Arish, i leader della tribù Fawakhrie e alcuni migranti Saidi (dell’Alto Egitto, ndr) per risolvere un contenzioso sorto per la costruzione della strada statale locale», considera Ismail. Ora le cose sono cambiate molto e se l’esercito è inviso a molte tribù del Sinai, gli islamisti moderati e radicali continuano ad accrescere il loro seguito tra la popolazione locale.