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  • Piero Stefani, Università di Ferrara

    A differenza di quanto avviene nel cattolicesimo, nell’ebraismo la proibizione non si fonda sul comandamento del Decalogo che proibisce di nominare il nome di Dio invano (Esodo 20,7). Quest’ultimo, infatti, riguarda, in primo luogo la sfera del giuramento compiuto per motivi impropri o futili. Il discorso sulla bestemmia fa riferimento ad altri e più articolati fondamenti. Per rendersene conto è particolarmente utile rivolgersi al Libro dei precetti di Mosè Maimonide (trad. it. Carucci-Dac Roma 1980). Il testo che ci riguarda si colloca al sessantesimo posto tra i precetti negativi. Vi si legge:

    «La proibizione di pronunciare il Gran Nome è questo è l’argomento che si chiama “bestemmia”. La punizione è la lapidazione (Levitico 24,16). Ma quanto al divieto, non vi è nel testo un divieto speciale per questo peccato da solo, ma vi è un divieto che comprende questo argomento e altri, cioè il detto “Dio non maledirai” (Esodo 22,27)».

    In sostanza nel Levitico si afferma che il bestemmiatore va punito con la morte, tuttavia in base al principio secondo il quale si può punire solo là dove è stato esplicitamente stabilito il divieto in questione, occorre riferirsi a un altro brano in cui la proibizione è esplicita. Da qui il rimando al passo dell’Esodo che in ebraico suona così: «Elohim lo’ taqqel» («Dio non maledire»). Si usa perciò il termine generico Elohim (con cui si si può riferire a tutta la sfera divina). Nel Levitico, però, si parla esplicitamente di bestemmiare «il nome di YHWH (l’impronunziabile Tetragramma).

    Dall’insieme di questi due riferimenti si comprende che per il diritto rabbinico la pena capitale (peraltro teorica in quanto non più applicabile quanto meno dopo la scomparsa del Sinedrio nel 70 d.C.) è riservata all’ebreo che profana pubblicamente il  nome di YHWH.  Essa rappresenta l’antitesi perfetta di un altro punto peculiarmente riservato al popolo d’Israele, vale a dire quello della «santificazione del Nome». Il tema viene chiarito anche questa volta da Maimonide, in un passaggio in cui si compie un riferimento a un Noachide, vale a dire a un non ebreo che, secondo la visione rabbica, è soggetto ai sette precetti rivelati da Dio a Noè validi per tutti i popoli.

    «Nel Talmud di Sanhedrinè detto: “Un Noachide ha il dovere di santificare il Nome divino a no? Sta a sentire, sette precetti sono stati dati ai Noachide, e se includessero anche questo sarebbero otto. Così risulta chiaro che questo è un precetto imposto solo a Israele e si porta come prova: “E verrò santificato in mezzo ai figli d’Israele” (Levitico 22,32)».

    In definitiva i sette precetti non comprendono quello della santificazione del Nome; tuttavia essi includono la bestemmia. Per comprenderlo basta elencarli: proibizione della blasfemia, dell’omicidio, del furto, di legami sessuali irregolari, di cibarsi di un membro strappato da un animale vivo a cui si aggiunge l’obbligo di stabilire un diritto penale (cfr, S. Ferrari, Lo spirito dei diritti religiosi, il Mulino, Bologna 2002, pp. 137ss.).

    Come intendere in base alla visione ebraica la proibizione della bestemmia per i non ebrei? La risposta dipende anche da quale fondamento viene individuato per i sette precetti. Secondo Maimonide, essi vanno considerati precetti rivelati dal Dio d’Israele. Quindi in quest’ottica il Naoachide è bestemmiatore solo quando profana il nome del Signore. Il brano di riferimento biblico principale a proposito della blasfemia del non ebreo è di nuovo costituito dal capitolo 24 (vv.10-16) del Levitico. Infatti il colpevole messo a morte per disposizione divina rivelata a Mosè era egiziano, da cui il principio secondo cui la stessa punizione vale sia per gli ebrei sia per gli stranieri. In base a questo procedere non esiste alcuna proibizione per un non ebreo di bestemmiare le proprie divinità.

    Piero Stefani è docente presso l’Università di Ferrara e presso la Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale di Milano


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