Srebrenica, le elezioni municipali e lo spettro del passato che non passa
Matteo Tacconi 17 dicembre 2012

Lo spettro del revisionismo

Per ovvi motivi, la prospettiva di un trionfo serbo ha turbato per settimane i musulmani della città bosniaca. Srebrenica è il luogo dell’orrore, il posto dove nel luglio del 1995 i militari serbo-bosniaci, guidati da Ratko Mladic, entrarono in armi e giustiziarono più di 8mila musulmani di sesso maschile. L’ipotesi che i serbi potessero esprimere il primo cittadino è stata vista come un affronto alla memoria.

D’altronde, anche il processo di assunzione di responsabilità da parte serba è stato difficile e tuttora ostacolato da numerosi rifiuti e titubanze. L’ex presidente serbo Boris Tadic è stato il politico che in questo processo più si è spinto in avanti. Nel 2010, quindicesimo anniversario della strage, si è recato a Srebrenica e ha fatto approvare in Parlamento una risoluzione di condanna della carneficina. Ma sia lui che i deputati hanno evitato di parlare di genocidio, usando il termine crimine. Non è la stessa cosa.

Anche il successore, Tomislav Nikolic, ex peso massimo dell’ultranazionalismo di recente convertitosi all’europeismo, parla di crimine, rifiutandosi però di compiere gesti anche vagamente conciliatori. È grosso modo sulla stessa linea Milorad Dodik, presidente della Republika Srpska (l’entità serba della Bosnia). L’eco dell’importante iniziativa del suo predecessore Dragan Cavic, che nel 2004 fece pubblicare un rapporto su Srebrenica e ammise le responsabilità dei connazionali, è ormai flebile.

La visione serba

Il genocidio e il mancato rientro da parte dei superstiti, causa assenza di lavoro e peso insopportabile del passato, hanno capovolto nel dopoguerra la situazione demografica di Srebrenica, dando ai serbi la maggioranza. Prima del conflitto, stando al censimento del 1991, i musulmani rappresentavano l’80% dei 36mila residenti complessivi, oggi ridottisi a 12mila.

Seppure minoritari, i musulmani hanno però sempre vinto le elezioni. Grazie anche al peso della diaspora nelle elezioni. Al voto del 2008, quando iniziò a maturare l’ipotesi che i voti dall’estero potessero fisiologicamente diminuire (causa decessi, disaffezione o distacco da parte dei giovani) e condurre alla sconfitta, venne approvata dal Parlamento una speciale deroga, votata anche dai partiti serbi, forse in cambio di qualche vantaggio politico, che concedeva il diritto di voto sulla base del censimento del 1991.

L’eccezione era una tantum e non è stata applicata a questa tornata. Sono dunque aumentate le chance di vittoria dei serbi, messi nelle condizioni di assaporare, il 7 ottobre, una particolare rivincita. Da parte serba, infatti, si ritiene  per lo più che la presa di Srebrenica da parte degli uomini di Mladic, in questo agevolati dall’ignominiosa fuga dei caschi blu olandesi dell’Onu, che non rispettarono la consegna di difendere il villaggio, fosse un’offensiva legittima. D’altronde proprio da Srebrenica le truppe musulmane del generale Naser Oric sferrarono violentissimi attacchi ai villaggi serbi limitrofi tra il 1992 e il 1993, ma anche – ritiene qualcuno – dopo che Srebrenica divenne una safe area Onu.

Eppure delle vittime causate da Oric, uscito pulito dal processo intentatogli dal Tribunale per l’ex Jugoslavia dell’Aia, non se ne parla. Esiste solo il male assoluto orchestrato da Mladic, del quale comunque solo pochi serbi – va detto – negano l’efferatezza. È questo, grosso modo, il comune sentire serbo su Srebrenica. La corsa elettorale ha così assunto la forma di una possibilità di “riscatto”.

Le sfide di Cami

Però, alla fine, ha vinto Camil Durakovic. Favorito da due fattori. Da una parte hanno inciso i 1300 voti (14,37%) ottenuti da Ratkovac Radojica, candidato serbo indipendente che di fatto ha sottratto preferenze alla Kosevic. Dall’altra ha ben funzionato il programma Glasacu za Srebrenicu (Voterò per Srebrenica), con cui, agitando lo spettro della vittoria serba, Durakovic ha convinto alcuni ex abitanti a registrarsi a Srebrenica come residenti – e automaticamente come elettori – in modo da aumentare la consistenza elettorale bosgnacca. La mobilitazione, unita ai voti della diaspora, ha sortito gli effetti sperati.

Ma Durakovic, ora, ha davanti a sé un altro problema. La coalizione di partiti che ne aveva sostenuto la candidatura s’è sfilacciata, risentendo dei cambiamenti a livello di governo centrale, dove il Partito dell’azione democratica (Sda) è stato cacciato dalla coalizione. Anche a Srebrenica sembra replicarsi questo schema, con il Partito socialdemocratico e l’Alleanza per un futuro migliore che hanno tagliato fuori l’Sda e siglato un preaccordo di governo con il Partito democratico serbo e l’Alleanza dei socialdemocratici indipendenti, le due principali forze serbe. I giochi, tuttavia, sono ancora aperti. Durakovic sta lavorando per ricomporre i cocci. Si vedrà.

Prossimamente

L’elezione dello scorso ottobre non è che una tappa del travagliato percorso che Srebrenica ha compiuto dopo la fine della guerra. Benché i rapporti umani tra bosgnacchi e serbi siano tutto sommato decenti, il peso della memoria è sempre in agguato e origina, quando sollecitato, forti divisioni. Dopotutto i primi considerano i secondi gli eredi morali degli autori del genocidio. Continuano, inoltre, a ribadire che è vergognoso che Srebrenica ricada sotto l’amministrazione della Republika Srpska, che trova la sua genesi nei territori scissionisti serbi ritagliati tra il 1991 e il 1992 da Radovan Karadzic (sotto processo all’Aia con l’accusa di genocidio, crimini contro l’umanità e di guerra) nel momento in cui musulmani e croati della Bosnia decisero di staccarsi dalla Jugoslavia a trazione miloseviciana. I serbi, dal canto loro, insistono nel leggere la storia inforcando un’altra lente, politicamente scorretta rispetto a quella che più diffusa nella comunità internazionale.

Tutto questo si ripercuote anche sul piano della politica nazionale, con il paese che resta impantanato sulla strada che porta a Bruxelles. Ognuno ha la sua visione della guerra, ognuno le sue vittime, ognuno la sua Srebrenica. Non si dialoga, non si fanno riforme serie. La Bosnia è ancora ostaggio del passato.

Immagine: 2007, commemorazione del massacro, foto di Adam Jones (cc)