In Iran, internet nazionale e sistemi di filtro: il potere corre sulla rete
Antonella Vicini 8 ottobre 2012

Dopo circa una settimana, l’accesso di oltre 34 milioni di utenti è stato ripristinato, non senza aver bloccato per giorni, però, anche transazioni e contatti commerciali di numerose aziende nazionali che utilizzano l’account di posta elettronica di Google. E non senza aver attirato le attenzioni di Reporters Sans Frontieres su quello che sembra solo l’ultimo tassello di un progetto molto più ampio di controllo sul web operato dalle autorità di Teheran e culminato nell’attivazione di un sistema internet nazionale, lo scorso 22 settembre. Da questa data, infatti, gli uffici pubblici (il ministro della Comunicazione e dell’Informazione tecnologica Reza Taghi Poor ha parlato di “42mila dipartimenti statali”) sono passati a una rete domestica che in futuro sarà accessibile a tutta la popolazione. Secondo Reporters Sans Frontieres, il blocco di Google e Gmail potrebbe essere dunque una scelta ad orologeria per presentare al meglio un servizio interno più efficiente ed esente dal rischio di blocchi, anche se come chiarito da Taghi Poor “per il momento non ci sarà nessuna banda disponibile per i privati”.

Ma perché l’internet made in Iran? “I siti governativi sono stati più volte attaccati da virus, costruiti su misura soprattutto da Usa e Israele, e pertanto un sistema interno è molto più sicuro e conveniente e riduce la vulnerabilità della nazione dinanzi agli attacchi cyber”. Così Davood Abbasi, giornalista e direttore di Radio Italia IRIB, il canale in lingua italiana della radio nazionale iraniana, ci spiega le ragioni di questa scelta. Inoltre, prosegue, “l’Iran è alla penultima posizione nel mondo per la velocità di internet. Il governo ha scelto così di dirigere verso la rete domestica tutte le operazioni interne come la visione dei siti nazionali, le operazioni bancarie eccetera, lasciando alla gente la possibilità di usare la rete internazionale per le altre attività. Da specificare, quindi, che questa rete non sostituirà quella esistente ma sarà complementare. Se vorranno essere in contatto sia con l’Iran che con il resto del mondo, le famiglia iraniane dovranno avere l’abbonamento ad entrambi i sistemi”. “Morale della favola – conclude Abbasi – la velocità di navigazione salirà incredibilmente per 36 milioni di utenti”.

Solo lati positivi, dunque? Non sono in molti a pensarla così, a cominciare dall’organizzazione internazionale per la libertà di informazione che, oltre a sottolineare l’opera di censura e di controllo di questa rete, pone l’attenzione sul suo forte potenziale propagandistico. Non a caso l’internet nazionale è stato ribattezzato Halal Internet.

Di Halal Internet o Internet-e melli, come lo chiamano in farsi, si è cominciato a parlare all’inizio del 2012, ma in realtà si tratta di un piano in lavorazione già dal 2002. Il governo iraniano, con il sostegno della Guida Suprema, ha però preferito posticiparne il lancio a causa degli attacchi informatici subiti dalle varie installazioni nucleari. Il primo passo è stato il trasferimento in Iran di server ospitati altrove. Quello del Majlis, il parlamento, fino allo scorso anno aveva sede ad esempio negli Stati Unti.

E fin qui è evidente che le autorità iraniane hanno voluto lanciare un messaggio all’esterno, troncando rapporti di dipendenza con Paesi ostili proprio mentre si intensificano le sanzioni internazionali. Ma nelle maglie della cyber diplomazia andranno a finire prima di tutto gli utenti.

L’Iran è una nazione molto giovane con circa il 70% della popolazione al di sotto dei trent’anni ed è un paese molto attivo intellettualmente e politicamente, nonostante una classe dirigente ormai cristallizzata. I giovani iraniani sono stati i primi a scoprire il potere deflagrante del web, delle community e dei social network, nel 2009, utilizzando le nuove tecnologie sia durante la campagna elettorale per le presidenziali, sia dopo la vittoria di Ahmadinejad nel corso delle manifestazioni di piazza. E sin da allora le autorità governative hanno operato potenti blocchi sul web per smorzare l’eco delle proteste, proprio mentre il satellite Hotbird trasmetteva nelle case degli iraniani, sui canali statunitensi e britannici in farsi Voice of America e BBC Persian, le immagini delle manifestazioni e della repressione. Da allora i blocchi non si sono mai interrotti e periodicamente hanno isolato gli utenti, come accaduto lo scorso marzo, durante le elezioni parlamentari e amministrative.

Se è vero che una rivoluzione non si fa con i social network, è vero anche che le ragioni autarchiche e diplomatiche del regime convincono poco. Soprattutto chi la rete la usa. “Le sanzioni degli Stati Uniti e dell’Unione Europea sono la principale ragione, ma si tratta solo di una scusa”, dice Roshanak, blogger.

“Il motivo vero – prosegue – è che il nostro governo vuole semplicemente controllare internet perché teme lo scambio di informazioni tra i giovani. Anche se molti siti sono filtrati, finora noi siamo riusciti ad aggirare la censura con sistemi anti-filtro. Il progetto di un internet nazionale punta a troncare ogni accesso libero al web”.

Secondo Marjan, ventitré anni, laureanda in matematica all’Università di Teheran, il lancio della rete nazionale, step by step, sarebbe una strategia già consolidata con cui “portare avanti le restrizioni sociali, per valutare le reazioni della gente. Se il mondo non dimostra grande sensibilità a riguardo e se la popolazione non protesta, il progetto verrò realizzato completamente”.

“La creazione di un sistema nazionale – dice ancora Marjan – è un modo di prendere in ostaggio l’intera nazione, dopo che nel 2009 (in seguito alle proteste post elettorali, ndr) il Ministero della telecomunicazione è stato acquisito dai Guardiani della Rivoluzione che lavorano in stretta collaborazione con l’intelligence”. Anche se un progetto del genere, sottolinea Kamran, trent’anni, ingegnere, sembra dal punto di vista pratico difficilmente realizzabile: “i problemi tecnici di un sistema parallelo a quello internazionale ne metterebbero a rischio la sicurezza”. A parlare di difficoltà tecniche e di costi elevati è anche Arash, ventisei anni e una laurea in risorse umane, che conclude: “il futuro di questa iniziativa è ancora molto sfocato, ma non mi stupirei comunque se prendesse piede. Ho già visto attuare provvedimenti anche più complicati pur di espandere il controllo sulle persone”.