Al Palazzo di Vetro dominano le divisioni
Antonella Vicini 3 ottobre 2012

Non a caso i discorsi più attesi sono stati quelli del presidente iraniano, di quello egiziano, del  primo ministro israeliano e dell’inviato speciale in Siria. Mentre le parole di Barack Obama hanno avuto, in realtà, più eco tra i suoi connazionali, per ovvie ragioni elettorali. Un monito deciso alla Repubblica Islamica, accusata di sostenere il potere di Assad e di non aver fatto nulla per sciogliere i dubbi sul suo nucleare, e un avvertimento che sembra rivolto a chi in questi quattro anni lo ha accusato di aver mantenuto un profilo basso in politica estera: gli Stati Uniti non si ritireranno mai dal mondo.

Ahmadinejad e Netanyahu sul ring
Ma l’immagine che più di tutte ha incarnato a livello mediatico questa assise è stata quella di Ahmadinejad, impegnato qui in quello che è stato il suo ultimo discorso in veste di presidente iraniano, dato che il prossimo giugno dovrà passare obbligatoriamente il testimone al suo successore (chiunque esso sia).

Il leader di Teheran, sulla scia di quanto già fatto durante il Vertice dei Paesi non Allineati, ha parlato di universalismo e di necessità di definire un nuovo ordine del mondo che non sia basato sull’egoismo e sugli interessi di pochi, ma che “riconosca Dio come creatura suprema” e che sia fondato sulla “fiducia, sulla carità e che porti pensieri, cuori e mani vicini l’un l’altro”. Come? “Riformando l’attuale struttura delle Nazioni Unite” e eliminando un monopolio inaccettabile.

Una stoccata all’Occidente, intrisa di una serie di riferimenti religiosi sull’arrivo del dodicesimo Imam al Mahdi, che per lo sciismo duodecimano rappresenta la venuta del Salvatore, “insieme a Gesù Cristo e ai giusti”. Ecumenismo e apocalisse, dunque, senza far riferimenti espliciti a questioni che sono esplose invece durante il discorso più diretto, ma non meno drammatico, del primo ministro israeliano, volato a New York con l’intenzione di reclamare quella “linea rossa” senza la quale il “futuro del mondo” è messo in pericolo (dall’Iran).

“È già tardi”, ha sottolineato Benjamin Netanyahu, paragonando la Repubblica Islamica ad Al Qaeda e dicendosi, in un secondo momento, preoccupato per lo stallo nel processo di pace in Medio Oriente. Secondo il premier israeliano la cosiddetta “linea rossa” potrebbe concedere più spazio alle sanzioni e alla diplomazia per convincere Teheran a smantellare il suo programma di armamento nucleare. Ma da parte sua, Ahmadinejad ha replicato che l’Iran risponderà con tutta la forza necessaria a un eventuale attacco straniero sul suo territorio, respingendo ogni accusa su un programma nucleare con scopi militari.

La prima di Morsi alle Nazioni Unite

Ahmadinejad versus Netanyahu e Netanyahu versus Ahmadinejad: uno scontro dialettico che non ha deluso le aspettative, a colpi di retorica ben assestati da ambo le parti. E con loro il presidente egiziano Mohammed Morsi, al suo debutto nell’assise internazionale: un volto nuovo dopo quello fossilizzato per circa un trentennio di Hosni Mubarak.

Non c’è dubbio che il leader dei Fratelli Musulmani stia cercando di riconsegnare il suo Paese a quel ruolo centrale tra Mediterraneo e Medio Oriente che la sua posizione geografica e la sua storia recente favoriscono. E per far questo non poteva non farsi portavoce dei diritti dei palestinesi, argomento imprescindibile nell’agenda di ogni leader arabo.

Morsi ha promesso sostegno alla battaglia del popolo palestinese per ottenere “libertà e dignità” e ha definito “vergognoso che il mondo permetta a un membro della comunità internazionale (Israele, ndr) di non riconoscere i diritti di una nazione che ha chiesto per decenni l’indipendenza” e che “le attività di insediamento continuino nella terra di queste persone”.  E ancora, il presidente egiziano si è rivolto ancora una volta alla platea per parlare a Israele: “il Medio Oriente non tollera più il rifiuto di alcun Paese al Trattato di non proliferazione nucleare, soprattutto se gli stessi Paesi adottano anche politiche irresponsabili e minacce”.

L’Egitto del dopo Mubarak è promotore anche del gruppo di contatto sulla Siria del quale fanno parte Iran e Turchia, insieme all’Arabia Saudita. Ma se i ministri degli Esteri dei primi tre Paesi si sono incontrati a margine dell’Assemblea Generale a New York, il rappresentate saudita ha mancato per la seconda volta l’appuntamento, ribadendo così il ruolo che Riyaḍ sta giocando sia nel Paese in guerra, sia nell’intera regione; in netta contrapposizione con le aspirazioni di Morsi.

Il nodo siriano

“Le cose in Siria vanno di male in peggio”. Una affermazione laconica per il rappresentante speciale di Onu e Lega Araba Lakhdar Brahimi che assieme al segretario generale Ban Ki moon e al leader della Lega Araba Nabil el Araby ha condiviso la preoccupazione che la Siria “si trasformi in un campo di battaglia regionale” in cui a confrontarsi siano attori ben diversi dalle milizie del Free Syrian Army  e i militari fedeli ad Assad. Guerra civile e crisi umanitaria sono due elementi sempre meno controllabili nel Paese tanto che, secondo la stima dell’UNHCR, il numero dei rifugiati, attualmente 300mila, rischia di salire a 700mila entro la fine dell’anno. Per far fronte a quest’emergenza saranno necessari 487,9 milioni di dollari. Si tratta del piano regionale preparato da cinquantadue tra agenzie, fra cui le Nazioni Unite, e ong. Il problema, come ha  sottolineato Ban Ki moon durante un incontro con il premier libanese Najib Mikati, è sostenere anche i Paesi limitrofi investiti più di tutti dall’ondata di profughi e dalla conseguente instabilità politica. Quando si parla di sostegno si intende un appoggio economico, ma anche politico perché il Paese dei Cedri per i suoi legami pericolosi con la Siria è quello che più di altro sta pagando le spese di questa crisi.

Questioni a latere

Ma l’Assemblea Generale dell’Onu è anche e soprattutto questioni globali meno succulente a livello mediatico. È  diritti delle donne, ambiente, energia sostenibile, terrorismo, sicurezza alimentare, legalità, crisi economica mondiale, disarmo, lotta alla pirateria; tutte questioni che sono state discusse in sessioni ad hoc durante questi sette giorni. Argomenti che riguardano  i 193 Stati Membri, così come la riforma del  Consiglio di Sicurezza dell’Onu, su cui si dibatte dagli anni Novanta e che mai come ora, di fronte allo stallo diplomatico sulla Siria, dimostra di essere diventato urgente. Ma l’assemblea è stata anche la platea per lo scontro tra Giappone e Cina sulla sovranità delle isole Senkaku (Diaoyu in cinese), amministrate da Tokio ma  rivendicate da Pechino. Un confronto che si è concluso con l’affermazione del premier giapponese Yoshihiko Noda che “la sovranità sulle isole non sarà oggetto di compromesso”, con la raccomandazione della Clinton di far prevalere toni più freddi e con l’arrivo nel Pacifico occidentale- questa però pare essere una coincidenza – di due gruppi d’attacco con le portaerei USS George Washington, di base in Giappone a Yokosuka, e USS John C. Stennis e con un corpo dei Marine. Non ultimo, sul tavolo dei leader mondiali anche il Mali tra crisi politica, qaedismo e emergenza alimentare.

Anche in questo caso, a dominare sono state le divergenze tra una Francia (e alcuni vicini di casa dello Stato africano) pronta a un intervento armato, in nome del suo passato coloniale, e il resto dell’Assemblea favorevole a una transizione democratica dopo il colpo di Stato militare dello scorso marzo.

C’è da dire che lo scorso anno, si respirava un clima diverso a New York. Sin dal tema della riunione. Dopo la primavera araba, e nonostante la guerra in Libia non fosse ancora conclusa, si guardava avanti con un certo ottimismo ed era forse più facile parlare di  “Mediazione”. Tunisia ed  Egitto si avviavano verso le loro prime elezioni democratiche; a Tripoli si preparava il futuro post Gheddafi; l’Anp con un coup de theatre, neanche troppo inaspettato, formalizzava la sua richiesta di un seggio per lo Stato palestinese.

Quest’anno, invece, anche le vecchie questioni, come quella sul nucleare e quella palestinese, viste alla luce della recente ondata di collera anti-americana e anti-occidentale nel mondo islamico e  delle profonde divisioni sulla questione siriana, hanno reso il percorso ai blocchi di partenza tutto in salita; un dibattito che, per stessa ammissione del segretario generale Ban Ki moon, è stato “uno dei più attivi di sempre”.