Le incognite del Medio Oriente nella politica Usa
Ilaria Romano 21 settembre 2012

Paradossalmente però l’attacco più grave per vittime ed elemento simbolico di violazione, quello militarmente organizzato contro un presidio diplomatico americano, rischia quasi di passare in secondo piano rispetto alle mobilitazioni di piazza delle ultime ore davanti alle ambasciate Usa al Cairo, a Tunisi, ma anche a Sanaa nello Yemen, in Sudan e in Bangladesh.

La natura terroristica dell’attacco al consolato di Bengasi infatti, ne fa un episodio a sé, che non può essere uniformato a quanto sta accadendo nelle altre piazze, e dove il film Innocence of Muslims non può nemmeno essere considerato il pretesto, come si diceva nelle primissime ore, per l’accendersi di quella che non è stata una protesta per un film blasfemo ma un attacco ad opera di uomini armati e con una strategia di azione ben precisa. Dal film comunque ha preso le distanze lo stesso governo americano, e il Segretario di Stato Hilary Clinton lo ha definito disgustoso e riprovevole.

La morte di un ambasciatore americano in servizio all’estero non si verificava dal 1979, quando Adolph Dubs, stesso incarico di Chris Stevens, era stato sequestrato in Afghanistan ed ucciso durante il tentativo di liberarlo. Profondo conoscitore del mondo arabo, e già inviato in Libia durante la rivolta contro Gheddafi, Stevens era tornato nel paese quattro mesi fa, ed aveva ottenuto il massimo incarico diplomatico il 7 giugno scorso. Entrato nello United States Foreign Service nel 1991, aveva lavorato a Gerusalemme, Damasco, al Cairo, a Riad e in Afghanistan. Era stato impegnato anche a Washington dove aveva diretto l’Office of Multilateral Nuclear and Security Affairs, ed era stato membro della Commissione Relazioni Estere in Senato. La sua uccisione è stata definita da Obama un atto “scandaloso e scioccante”, ma per l’avversario repubblicano in corsa alla Casa Bianca Mitt Romney, il presidente in carica ha solo mostrato debolezza nella reazione e dimostrato il fallimento delle politiche statunitensi nell’area mediorientale.

Di fatto fino ad oggi gli Usa hanno manifestato l’apparente intenzione di non farsi coinvolgere negli affari interni della “nuova” Libia, anche se sul piano della diplomazia si è cercato, insieme alla ferma condanna dell’accaduto e al richiamo all’unità nazionale, di lanciare una sponda al governo libico per un lavoro comune sul fronte sicurezza. Al di là di come saranno rafforzate le sedi diplomatiche e rintracciati i responsabili dell’attacco, magari anche con l’uso dei droni, di cui si parla nelle ultime ore, l’idea di Obama di un nuovo corso fra l’America e il mondo islamico, annunciato nell’ormai famoso discorso del Cairo del 4 giugno 2009, non ha dato i risultati sperati, e probabilmente anche questo elemento ha contribuito a spegnere gli entusiasmi e a far rimontare un sentimento anti-americano all’interno di situazioni che non hanno di certo superato fasi di grandi instabilità politiche e che stanno organizzando una transizione dagli esiti ancora incerti, come in Libia, ma non solo.

Secondo Robert Kapplan, autore del libro The Revenge of Geography, l’errore di Obama è stato quello di immaginare, nel caso libico, che Tripoli potesse imporre l’ordine in tutto il paese, quando invece Bengasi e la Cirenaica appaiono ad oggi ancora più legate all’Egitto. Difficile ipotizzare cambi di rotta nella politica americana, almeno fino alle prossime elezioni; la dottrina Obama non sembra cambiare: il terrorismo si combatte con l’intelligence e non con le operazioni militari su larga scala.

Secondo quanto si legge nel Rapporto per il Congresso redatto il 9 agosto scorso da Christopher M. Blanchard, esperto in questioni mediorientali, il governo degli Stati Uniti ha fornito più di 200milioni di dollari alla Libia dall’inizio delle proteste anti-Gheddafi nel 2011; di questi, 89milioni sono stati destinati all’assistenza umanitaria. “Gli interessi degli Stati Uniti in Libia – si legge nel documento – richiedono impegno di risorse e attenzione per i possibili esiti di transizione e potenziali implicazioni”. E negli interessi, scrive Blanchard, rientrano anche i programmi per ridurre la proliferazione delle armi.

L’ultimo dossier dell’International Crisis Group, datato 14 settembre, sottolinea come l’uccisione di Stevens sia un duro monito per gli Stati Uniti in fatto di sfide da affrontare sulla sicurezza in Libia. “Il paese – si legge – non può essere guardato in modo univoco: come esempio di rivolta e ricostruzione tendente ad una democrazia, oppure come un paese di fatto frammentato in più aree ognuna tendente ad una direzione diversa”. La Libia di oggi è entrambe le cose, perché lo stato non è ancora pienamente funzionante, la polizia non riesce ad essere davvero efficace, gli attori locali hanno molta influenza, e le controversie per il potere emerse nel dopo Gheddafi sono tutt’altro che risolte.

Mentre le manifestazioni di protesta davanti alle rappresentanze diplomatiche americane si sono estese all’Egitto, alla Tunisia, allo Yemen, al Sudan (dove è stata presa di mira anche l’ambasciata tedesca), all’Iran, all’Afghanistan, al Bangladesh e persino all’Australia, è arrivata la condanna delle violenze da parte del Consiglio di Sicurezza dell’Onu.

L’ondata di proteste ridimensiona l’ottimismo sulla riuscita di un nuovo corso politico e sociale nei paesi liberati da vecchi regimi. L’instabilità attuale è un dato incontrovertibile, come il fatto che in paesi come l’Egitto, le nuove alleanze fra Stati-Uniti e Fratelli Musulmani stiano destabilizzando le frange più oltranziste dei salafiti da un lato e dei copti dall’altro. “Una profonda sfiducia sta riemergendo – ha detto il direttore del Brookings Doha Center Shaikh Salman– e anche il ritorno manifesto dell’anti-americanismo è frutto di questa alternanza di alleanze fra vecchi nemici che diventano nuovi amici”.

Come riporta Rick Gladstone sul New York Times, “la libertà ritrovata ha dato il via anche ad una mancanza di autorità”. Dove il malcontento dei giovani della cosiddetta primavera araba, scesi in piazza per rovesciare i regimi e per ottenere diritti, si ritrovano, un anno dopo, ugualmente disoccupati e comunque esclusi dai centri di potere.

Di fatto gli la presidenza degli Stati Uniti, alla vigilia del voto, non può permettersi un cambio di rotta proprio ora, anche perché alla maggior parte dell’elettorato, nell’attuale fase di crisi, deve dare risposte soprattutto su questioni di politica interna. La loro percezione nel mondo arabo però sconta l’immobilismo tanto nel processo di pace israelo-palestinese quanto nella questione siriana.