Sulla morte di Osama
Michael Walzer 12 maggio 2011

La cattura di Osama bin Laden è stata, come hanno detto tutti, una grande vittoria (simbolica). Che cosa c’è di sbagliato, dunque, nei festeggiamenti davanti alla Casa Bianca? Secondo un antico commento ebraico (midrash) al libro dell’Esodo, quando l’esercito del Faraone annegò in mare, gli angeli in cielo cominciarono a esultare, ma Dio li rimproverò dicendo: “Come potete rallegrarvi mentre le mie creature annegano?”. Questo aneddoto ha sicuramente un equivalente laico. Sono convinto che sia giusto celebrare la fine delle guerre, ma non l’uccisione dei nostri nemici. E la guerra contro il terrorismo islamista non è finita.

Ma siamo davvero in guerra? Molti osservatori politicamente schierati a sinistra rifiutano questa idea. A loro avviso, Osama bin Laden non era un nemico da uccidere, bensì un criminale da consegnare alla giustizia. Il nodo cruciale del dibattito è stato fin dall’inizio proprio questo: gli attentati dell’11 settembre 2001 sono un atto di guerra o un crimine? Le due posizioni vengono generalmente sostenute con estrema convinzione; l’una esclude l’altra. La verità è che, in luoghi e momenti diversi, sono giuste entrambe.

La lotta contro al Qaeda è un compito che spetta, laddove possibile, alle forze di polizia. È quanto avviene, ad esempio, nei paesi dell’Europa occidentale, che costituiscono una zona di pace e dove i terroristi islamici sono giustamente considerati come criminali. Questi ultimi vengono perseguiti secondo le regole di ingaggio della polizia, non dell’esercito. Se bin Laden si fosse nascosto in Francia, sarebbe stato catturato, arrestato e messo sotto processo.

Nel 2001, tuttavia, la lotta contro al Qaeda ha reso necessaria una guerra in Afghanistan, poiché il regime dei taliban aveva garantito all’organizzazione terroristica tutti i privilegi della sovranità nazionale. Quel conflitto è tuttora in corso, ma viene gestito in modo sbagliato: l’impegno dell’amministrazione Bush nella guerra in Iraq ha impedito agli Stati Uniti di investire le risorse necessarie per i combattimenti e per le riforme politiche ed economiche. È anche per questa ragione che il conflitto si è esteso al Pakistan, dove un altro regime ha concesso ad al Qaeda privilegi simili a quelli che aveva ottenuto dai taliban, o quanto meno non ha voluto – o potuto – negarglieli. La sovranità nazionale del Pakistan non protegge i militanti che compiono azioni ostili nei confronti di altri paesi senza che il governo riesca a impedirlo (quali che siano le ragioni). Il Pakistan non è una zona di pace né per al Qaeda né per gli Stati Uniti.

L’uccisione di Osama bin Laden, dunque, è stata un atto di guerra. L’uomo era certamente un obiettivo legittimo, trattandosi del capo di un’organizzazione che aveva dichiarato guerra agli Stati Uniti sferrando un attacco devastante. Non sappiamo se stesse effettivamente pianificando futuri attacchi dal suo nascondiglio pachistano. Ma Osama era chiaramente l’ispiratore delle azioni in corso, ed è probabile che vi fosse coinvolto in prima persona.

L’uccisione di Osama non è stata un’ingiustizia. Resta da chiedersi se il fatto di avergli tolto la vita, invece di arrestarlo, costituisca una violazione dei nostri valori. Sarebbe stato più giusto trattarlo come un criminale, anziché come un nemico, trasferendolo negli Stati Uniti e mettendolo sotto processo? In realtà, bin Laden era sia un criminale che un nemico, ma non credo che sarebbe stato giusto, né eticamente corretto, chiedere agli uomini del commando statunitense di agire come forza di polizia. È evidente che la loro operazione non si svolgeva in una zona di pace, e l’arresto di Osama avrebbe potuto rendere la loro missione molto più pericolosa di quanto già non fosse.

La scelta di non considerare la lotta contro al Qaeda come un’attività di esclusiva competenza delle forze di polizia è dettata anche da ragioni di sicurezza. Un processo contro Bin Laden avrebbe messo in pericolo tutti gli americani che si trovano all’estero, perché vi sarebbero sicuramente stati tentativi di cattura di ostaggi per chiedere il suo rilascio. Anche se agiamo secondo il paradigma del crimine, i nostri nemici seguono quello della guerra. Il che ci impone, a volte, di fare altrettanto.

La consapevolezza delle sfide che ci attendono, delle battaglie che potrebbero essere combattute e dell’attività di polizia che occorrerà certamente svolgere – oltre che delle future vittime del terrorismo e della guerra –, dovrebbe dissuadere dalle celebrazioni trionfalistiche. Ma è giusto esprimere un moderato sollievo e gratitudine al presidente Obama per aver chiuso il capitolo bin Laden.

Michael Walzer, filosofo, è condirettore della rivista statunitense Dissent, sulla quale è apparso il presente articolo.

Traduzione di Enrico Del Sero