Stereotipi forzati
Daniela Conte 23 September 2009

Questo è il testo presentato dall’autrice alla Conferenza di Doha su donne e media, organizzata da Resetdoc il 19 aprile 2009

Nell’era dell’informazione i mass media detengono un potere culturale/ideologico significativo, influenzano l’immaginario dominante della società, in altre parole definiscono norme, modelli e standard sociali ampiamente condivisi dall’opinione pubblica. Particolarmente interessante a tal proposito è la rappresentazione delle donne proposta dalla Tv; infatti quando si discute della rappresentazione di genere si intende proprio la percezione sociale e culturale che comunemente si ha delle donne, il che vuol dire che inevitabilmente esiste un gap più o meno ampio tra il vero status delle donne in una data società e l’immagine proposta dai media.

È bene ricordare che i media sono in sé soltanto dei mezzi, degli strumenti che possono essere utilizzati in maniera diversa, il che vuol dire che possono sia contribuire al rinforzamento di pregiudizi o stereotipi, aumentando quindi la distanza tra realtà reale e rappresentazione, o piuttosto favorire un’analisi critica finalizzata a cogliere più a pieno la complessità della realtà così magari migliorando lo status sociale di segmenti più deboli della società, come le donne. Nonostante negli ultimi decenni in tutto il mondo occidentale la donna abbia migliorato la propria posizione nella società secondo le più recenti statistiche, la televisione non è ancora in grado di cogliere a pieno questa evoluzione. È come se le donne fossero vittime di un circolo mediatico vizioso, sono rappresentate e percepite come se avessero uno status sociale più debole, le loro opinioni sono dunque meno rilevanti di quelle maschili, e di conseguenza continuano a essere meno rappresentate, insomma le donne sono per lo più invisibili in Tv.

Nel 2000 il Global Media Monitoring Project, promosso dalle Nazioni Unite per studiare la rappresentazione mediatica femminile a livello globale, ha dimostrato che soltanto il 18% degli attori presenti nell’informazione erano donne. Inoltre anche quando le donne sono in Tv continuano a essere vittime della cosiddetta «tirannia della bellezza», per cui sono più i loro corpi che le loro opinioni a essere rappresentate. Ciò è confermato dal fatto che nell’informazione le donne impegnate in politica ricevono molto meno spazio dei loro colleghi uomini, mentre nell’ambito dell’intrattenimento si osserva una normalizzazione sia della pornografia che della violenza contro le donne. Secondo le statistiche che analizzano l’attuale situazione europea, a oggi non esiste un solo genere televisivo, a parte i programmi religiosi e quelli per bambini, dove sia dato più spazio alle donne che agli uomini. Inoltre nell’ambito dei talk-show politici le donne non solo ricevono meno tempo, ma i giornalisti si rivolgono a loro in maniera più informale e diretta e in più non si riesce a distinguere tra la loro dimensione lavorativa e quella privata. In altre parole le donne sono prima mogli, madri e poi politici, esperti o professionisti.

Si può quindi affermare che, al di là di alcune eccezioni, la televisione offre ancora una rappresentazione maschilista della società e fatica a proporre una visione alternativa agli stereotipi più tradizionali. È interessante però analizzare cosa accade quando la Tv tratta il caso di donne straniere, e quindi quando la rappresentazione di genere si incrocia con quella dell’«Altro», il «diverso» da noi. Se guardiamo ad esempio a come la televisione italiana rappresenta le donne islamiche ci rendiamo conto che è in atto una sorta di effetto moltiplicatore tra stereotipi. Infatti la Tv italiana – data la sua conformazione interna, l’assenza di canali tematici e il carattere «etnocentrico», soltanto il 20% dell’informazione italiana è dedicata a notizie dall’estero – fatica ancora a garantire una rappresentazione adeguata di realtà estranee soprattutto se culturalmente o religiosamente lontane dalla tradizione italiana.

L’analisi condotta su tre programmi della Rai, «Porta a Porta», il documentario «Mediterraneo» e il programma sull’immigrazione «Un Mondo a Colori», dimostra che quando si parla di mondo arabo/islamico le donne sono al top dell’agenda; i 4 argomenti più discussi in relazione alla specificità araba dell’islam sono: questioni femminili, il problema della convivenza tra culture diverse con particolare rilievo sul diverso trattamento della donna, il terrorismo/immigrazione clandestina, e la religione spesso contrapposta a quella cristiana per il diverso riconoscimento della figura femminile.

Un’analisi qualitativa di alcune puntate di questi programmi andati in onda dal 2006 al 2008 dimostra che nei dibattiti relativi alla donna musulmana le parole più utilizzate, da giornalisti, personaggi politici o gente comune sono: segregata, picchiata, insulti, velo, libertà, religione, odio, diritti umani, fondamentalismo. Questa idea di violenza e di assenza di diritti per le donne a volte è rinforzata dall’utilizzo di immagini shock, come quelle di una lapidazione avvenuta a danno di una donna adultera in Iraq mostrate dal seguitissimo «Porta a Porta» in una puntata sul velo. 

Dai risultati dell’analisi risulta che tre sono le principali immagini della musulmana promosse da questi programmi: una donna, solitamente immigrata in Italia, vittima di abusi che necessita di un aiuto per cambiare la propria vita e affrontare le violenze subite dagli uomini; una donna che condivide la visione maschilista della società e quindi incapace di emanciparsi, o ancora una donna che considera il matrimonio, e quindi la presenza al sua fianco di un uomo, come il destino della sua vita. Quasi del tutto assenti sono invece sia gli esempi di donne musulmane di successo e che vivono una condizione emancipata, sia le esperienze di quelle che portano avanti battaglie civili finalizzate al riconoscimento dei propri diritti.

Insomma la donna a oggi fatica a trovare uno spazio mediatico adeguato per rappresentare a pieno la propria identità sociale né tantomeno sembra in grado di utilizzare il mezzo televisivo come strumento di empowering perché per lo più vittima di una stereotipizzazione forzata; quando poi si tratta di una donna musulmana la situazione è ancora più complessa, perché si tratta di superare due diversi stereotipi: quello del «genere» e quello dell’«Altro».

Daniela Conte è assegnista di ricerca presso la Luiss Guido Carli nel campo dei mass media nel mondo arabo

 

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