Centocinquanta anni di incomprensioni
Tommaso Nelli 21 luglio 2009

Vittime e sangue per ritrovarsi sotto i riflettori del mondo. E’ la drammatica condizione degli Uiguri, popolazione turcofona dello Xinjiang, confinata nell’anonimato dell’attenzione pubblica fino a che non è stata oggetto di forti repressioni da parte del governo cinese. 156 morti e 800 feriti. Agli inizi di luglio un massacro cruento è andato in onda per le strade della capitale Urumqi, attraversata già da piccole sommosse locali fin dallo scorso 26 giugno, quando due uiguri sono stati uccisi (dodici i feriti) da operai cinesi per vendicare degli stupri, in realtà mai avvenuti, su due ragazze di etnia Han. Solidarietà da parte dell’Europa: una settimana fa, a L’Aia e Berlino, sit-in di protesta degli esuli uiguri davanti alle ambasciate cinesi; a Istanbul, cinquemila musulmani hanno ribadito lo stop alla pulizia etnica con un corteo fuori la moschea di Fatih. Esplicita la posizione del premier turco Erdogan, che ha parlato di genocidio e pensa d’inserire il problema nell’agenda di sicurezza dell’ONU.

Ma chi sono questi Uiguri? E sono veramente così temibili da richiedere un dispiegamento massiccio di forze armate inviate a oltre tremila chilometri da Pechino? Le violenze compiute dall’esercito rappresentano soltanto la punta dell’iceberg di un lungo conflitto tra l’establishment politico cinese (di etnia Han) e questa comunità dominante nello Xinjiang – la regione più grande della Repubblica con una superficie di 1.650.000 km², conosciuta anche con il nome di Turkestan Orientale – che alle spalle ha un patrimonio storico sofferto e travagliato.

All’origine dei ripetuti scontri è la disperata ricerca di un’indipendenza mantenuta dal 751 al 1759, ma in declino fin da quando la Manciuria, con l’ausilio anche dell’Impero britannico, operò un primo assoggettamento. Era il 1863. Da quel momento, escluso il breve quinquennio fra il 1944 e il 1949, per gli Uiguri l’autonomia ha assunto i contorni di una chimera ed è divenuta la ragione principale dei dissidi con Pechino, tanto da provocare una diaspora. Molti di loro sono fuggiti nei paesi limitrofi – Kazakistan, Kirghizistan, Uzbekistan – riunendosi in associazioni per promuovere sia istanze indipendentiste che la sopravvivenza della loro cultura.

Altro fattore d’attrito con il resto della Cina, perché gli Uiguri parlano una lingua fonetica imparentata con l’arabo e, come tale, non rappresentabile con gli ideogrammi. L’appartenenza all’Islam ha accentuato le divergenze con i vertici governativi, che da trent’anni invia popolazioni di etnia Han (ceppo razziale dominante in Cina) a colonizzare un territorio arido e povero, immerso tra montagne e deserti. Ma con una ricchezza: il bacino del Tarim, principale fonte d’idrocarburi di tutto il paese, motivo più che sufficiente per ignorare le richieste d’indipendenza e reiterare azioni coercitive tese ad aumentare il controllo su un’area di stretta importanza economica per il benessere nazionale.

Equivalenti al 30% della popolazione della capitale (che ha 2,5 milioni di abitanti), oltre a subire il processo di decolonizzazione, negli ultimi venti anni gli Uiguri sono stati bersaglio della ferocia governativa, che sotto la bandiera della sicurezza ha compiuto veri e propri massacri. Nell’aprile del 1990 mille cittadini, scesi in strada a protestare pacificamente per la mancata autorizzazione alla costruzione d’una moschea, scatenarono la furiosa reazione della guardia imperiale, che uccise sessanta civili e ne arrestò addirittura 7900 perché sospettati di terrorismo. Il 5 febbraio 1997 trenta religiosi islamici furono arrestati dalla polizia nella città di Yiming, originando una manifestazione di solidarietà con seicento persone, vanificata però dal lancio di gas lacrimogeni e dagli spari di cannonate ad acqua della polizia. Il giorno successivo, davanti a una nuova mobilitazione, la reazione militare fu ancora più spietata: al termine degli scontri, per le vie della città, si contarono 167 cadaveri uiguri.

Successivamente, furono arrestate cinquemila persone accusate di separatismo e fondamentalismo religioso a scopo terroristico. Sette di loro furono giustiziate in piazza, con un colpo di pistola alla nuca, prima di essere trasportate per le vie centrali della città come monito per le altre affinché desistessero dalle loro posizioni indipendentiste. Dopo gli attentati alle Twin Towers dell’11 settembre 2001, Pechino ha aumentato l’azione repressiva nella regione, richiedendo l’inserimento dell’ETIM – Movimento Islamico del Turkestan Orientale – nella lista delle organizzazioni terroristiche internazionali legate ad Al Qaeda.

Anche se, come si pensa da più parti, la collaborazione del governo nazionale con gli Stati Uniti in materia di sicurezza mondiale è più una maschera per nascondere altre intenzioni, come la progressiva estinzione della popolazione uigura e l’ulteriore affermazione del proprio controllo nello Xinjiang.