Ucraina, la battaglia è anche georeligiosa
Matteo Tacconi 16 gennaio 2009

L’Ucraina è una nazione ingovernabile. Dopo la svolta arancione del dicembre 2004, quando con un golpe di velluto il tandem Yuschenko-Tymoshenko scalzò dal potere i filorussi, il paese è rimasto in un limbo. Il blocco arancione non è riuscito a schiodare il paese da una posizione geografica e geopolitica delicata, che lo vede in sospeso tra Europa e Russia. I propositi di avvicinamento allo spazio euroatlantico, sostenuti a gran voce dal presidente Viktor Yuschenko e dalla premier Yulia Tymoshenko dopo la rivolta pacifica di quattro anni fa, sono ormai sfumati.

Hanno seguito la parabola che ha portato la cordata arancione, che tante speranze aveva alimentato a Occidente, a sfasciarsi. La rivalità tra Yuschenko e Tymoshenko, abili più a servire i circoli di interessi a loro vicini più che a governare responsabilmente il paese, le pressioni politiche della Russia e le costanti minacce di taglio agli approvvigionamenti di gas messe in campo da Gazprom, braccio energetico del Cremlino (da ultima la micidiale crisi di inizio gennaio), hanno portato i protagonisti della svolta del 2004 a dividersi già nel 2005. Quel divorzio è stato sanato con la formazione di un nuovo governo arancione nel 2007, ma la ricomposizione è stata solo di facciata. La frattura è insanabile. Tant’è che in autunno si era pensato di andare al voto anticipato, previsto per il 7 dicembre.

L’appuntamento è stato poi cancellato, complice l’impatto che la crisi finanziaria globale ha avuto a Kiev – crollo delle attività produttive, azzeramento della crescita, disoccupazione, problemi di liquidità bancaria – e la conseguente mancanza di quattrini per organizzare il processo elettorale. L’atmosfera politica, in Ucraina, è incandescente. Yuschenko ha accusato Tymoshenko di essersi venduta ai russi, sostenendo che la sua mancata presa di posizione a favore della Georgia, lo scorso agosto smembrata dall’Armata russa, costituisce l’ineluttabile prova del tradimento. Su una situazione già precaria si è poi abbattura, insieme alla crisi, la nuova puntata della “guerra del gas” che oppone Kiev a Mosca. E anche qui non sono mancati gli scambi di battute tra Yuschenko e la sua ex alleata, pronti a scaricare l’uno sull’altra, l’altra sull’uno, la gravità della situazione e il fatto che, ancora una volta e ancora una volta nel periodo più gelido dell’anno, Mosca ha chiuso i rubinetti all’Ucraina.

Una chiesa nazionale

Ma non è solo lotta politica. Agli equilibri di potere, in Ucraina, s’affianca un complicato conflitto culturale e le due cose, spesso, si sovrappongono. Lo conferma per esempio la battaglia sulla lingua, dettata dal fatto che la classe dirigente ucraina non ha mai voluto riconoscere al russo, bollato come la lingua del nemico, ma parlato da quasi il 40% della popolazione, il rango di secondo idioma ufficiale della nazione. Ucraina e Russia sono legate a filo doppio dalla storia. Proprio a Kiev, nel IX secolo dopo Cristo, nacque il primo stato russo della storia (la Rus’ di Kiev). Durante quell’esperienza statuale la nazione russa si sarebbe convertita all’ortodossia e il cristianesimo orientale sarebbe diventato uno dei fattori costituenti della Russia.

L’ortodossia è proprio uno dei temi che alimentano il conflitto ucraino. A fine luglio 2008 il presidente Viktor Yuschenko ha lanciato l’idea di fondare una chiesa ortodossa ucraina svincolata dal patriarcato di Mosca. In altre parole ha chiesto per l’Ucraina una chiesa autocefala, per utilizzare la terminologia del cristianesimo orientale. Il proclama di Yuschenko è arrivato durante i festeggiamenti del 1020° anniversario della fondazione della Rus’ di Kiev. Un evento non giubilare, per certi versi irrituale, organizzato in pompa magna. Un evento con cui Yuschenko, più che celebrare la storia feconda della capitale, ha voluto lanciare la nuova crociata nazionale.

Attualmente la chiesa ortodossa di Kiev è subordinata al patriarcato di Mosca, che è di fatto l’unica struttura sopravvissuta alla disgregazione dell’impero sovietico. Molti dei territori un tempo parte dell’Urss e oggi indipendenti – Ucraina, Bielorussia, Estonia, Lituania, Lettonia – continuano infatti a fare riferimento, per ciò che concerne l’organizzazione ecclesiastica, a Mosca. Il che dà modo alla Russia, che durante l’era di Putin ha conosciuto una forte saldatura (ma attenzione a non parlare di sovrapposizione) tra potere civile e potere religioso, di esercitare un’altra forma di influenza, tuttavia decisamente più soft rispetto alle pressioni energetico-politiche, su nazioni sovrane non più parte dell’Urss ma ancora parte dello spazio russo.

In questi stati, negli ultimi quindici anni, si sono registrate forte tensioni sul terreno della religione. Più volte è stato messo in luce il desiderio di staccarsi dal patriarcato di Mosca e di fondare una propria chiesa autocefala, in altre occasioni sono nate chiese scismatiche. In generale, con la dissoluzione dell’Urss e il riaffiorare di antiche diatribe storico-culturali, si è registrato ovunque un intreccio tra temi identitari e temi religiosi. L’Ucraina è forse il luogo dove queste nuove dinamiche sono emerse con più foga. Nella Galizia, regione occidentale del paese, c’è stata una rinascita vigorosa della chiesa greco-cattolica, che dopo la Seconda guerra mondiale era stata chiusa dalle autorità sovietiche e incorporata nel patriarcato moscovita, con cui ora i greco-cattolici ucraini sono in rotta di collisione. Ancora più problematica è la creazione di due chiese scismatiche – la chiesa ortodossa ucraina autocefala e la chiesa ortodossa ucraina-patriarcato di Kiev – che hanno fatto dell’approccio antirusso la loro cifra e che sono state sostenute con convinzione dalle istituzioni. Per queste ultime l’autocefalia sarebbe infatti un attributo necessario per il consolidamento dello stato e allo stesso tempo una fonte di legittimazione per il potere civile.

Patriarchi contro

Torniamo a Kiev, nel luglio scorso. Al 1020° anniversario della fondazione della Rus’ erano presenti sia il patriarca di Costantinopoli Bartolomeo, sia il patriarca russo, Alessio II (da poco defunto). Entrambi erano stati invitati da Yuschenko, volutamente. L’obiettivo del capo dello stato ucraino era seminare zizzania tra i due. Tra Costantinopoli e Mosca – la “seconda” e la “terza Roma”, la sede storia dell’ortodossia e il centro d’irradiazione oggi più importante del cristianesimo orientale – c’è infatti grande rivalità. Gerarchicamente parlando, Bartolomeo è il primus inter pares dei patriarchi ortodossi e può concedere il diritto all’autocefalia a questa o quella chiesa. Dunque potrebbe conferire alle due chiese scismatiche dell’Ucraina, magari riunendole, l’autocefalia. In alternativa potrebbe comunque legittimarle e accoglierle nella giurisdizione del patriarcato costantinopoliano.

Non ha optato né per l’una né per l’altra cosa, ma il fatto che fosse a Kiev nel momento in cui Yuschenko proclamava la necessità di creare una chiesa autocefala ucraina gli ha conferito un ruolo nella contesa tra Kiev e Mosca e questo aveva indispettito notevolmente Alessio (e indispettirà anche il suo successore), recatosi a Kiev non tanto per commemorare la Rus’, quanto piuttosto per contrastare Bartolomeo e per lanciare un monito al patriarca della sede storica del cristianesimo orientale e a Yuschenko: nessuna interferenza sull’Ucraina. La questione è tutt’altro che chiusa e ricalca da vicino le dinamiche politiche che attraversano Kiev. Una chiesa autocefala o il mantenimento dell’assetto attuale? L’Europa o Mosca? Sarà limbo o sarà svolta? Difficile che il nodo venga sciolto. La politica è troppo intrecciata con i temi identitari e culturali, per fornire da sola una soluzione ai molteplici problemi con cui l’Ucraina ha a che fare.