Viaggio in Transnistria, dove Putin è il nuovo Guevara
Riccardo Valsecchi 15 September 2008

Alzo la cornetta e riprovo: “Mi chiamo… sono di ritorno da un viaggio in… mi chiedevo se…”; dall’altra parte nulla, cade la linea, “No, grazie”, “ Chi? Che cosa? Dove?”…Ripongo l’apparecchio e porto le mani dietro la nuca; distendo la schiena sul divano e le gambe sulla sedia di fronte. Lo sguardo vaga nel vuoto. La mente va ai giorni appena trascorsi, alle emozioni passate, ai volti della gente che ho incontrato. Ho viaggiato nell’Est Europa, in quei paesi che una volta si chiamavano Repubbliche Sovietiche. Un tragitto pensato, ma non programmato: una sola località di partenza, Berlino, dove vivo, una sola d’arrivo, Odessa, uno dei centri della Rivolta del 1905, l’episodio antesignano della Rivoluzione d’Ottobre del 1917. Per me, per tanti, per chi conosce Ejzenštejn, un luogo simbolo. In mezzo solo tappe decise sul momento.

Ciò che mi ha spinto verso queste terre è il desiderio di capire: vivere a Berlino significa entrare a contatto con una realtà, un passato, quello del socialismo reale, che, nell’Ovest, dove lo si è idealizzato o demonizzato, non si conosce affatto. Oggi tante cose sono cambiate in questi territori, ed alcuni di essi sono entrati a far parte della Comunità Europea, altri ambiscono ad essere annessi nel prossimo futuro, ma le contraddizioni, il peso della storia, il fardello culturale rimangono lì, immutati. L’eredità che ha lasciato l’Unione Sovietica non è solo politica, o storica, non riguarda solo la recalcitrante violenza dell’occupazione o la privazione delle libertà, ma è prima di tutto etnica: in queste terre convivono due etnie, autoctona e russa, in netta e violenta contrapposizione; due lingue diverse, quella imposta dall’invasore e quella ripristinata con l’indipendenza, che non si parlano e non si ascoltano. In secondo luogo è militare, perché in queste regioni ancora oggi stazionano i depositi e gli effettivi dell’ex Armata Rossa, oggi Forze Armate della Federazione Russa.

Chisinau, quel taxista con l’iPhone

Sono aree particolarmente povere, il cui stato di degrado ed abbandono non ha scalfito la voglia comune di riemergere, con orgoglio e speranza. Sono paesi in cui l’inedita possibilità di “possedere” assume i connotati del consumismo più sfrenato, là dove i simboli dell’Occidente, l’Iphone, il Nokia 6630, la Mercedes-Benz, Dolce e Gabbana, Luis Vuitton, Moschino, ecc, spesso falsi o acquistati vendendo i propri beni, o rinunciando a ciò che si ritiene superfluo – i denti, per esempio, come mostra, sorriso esclusivamente gengivale, il taxista che mi accompagna per Chisinau, la capitale della Moldavia, esibendo il nuovo iphone 8gb – assurgono a ruolo di effimero riscatto sociale. Compio questo viaggio in contemporanea con i fatti della Georgia, la guerra in Ossezia del Sud ed Abkhazia. Chiedo e mi informo: voglio sapere che cosa è successo, ma anche che cosa ne pensa la gente di qui, che con la Russia ed i russi ci convivono da un secolo. Mi dicono che se voglio capire, devo andare in Transnistria, a Tiraspol: “Là è come in Ossezia del Sud, se non peggio…”. La Transnistria è un’isola nel mezzo degli stati che giorno dopo giorno sognano di liberarsi del fardello del passato, di entrare nella Comunità Europea, di cacciare l’incubo del vicino pericoloso che li sorveglia. La Transnistria è il centro di controllo della Russia nelle regioni che si affacciano sul Mar Nero. La Transnistria è l’Ossezia che incombe nel cuore dell’Europa del futuro.

La guerra del 1992

Una storia molto particolare: ancora prima che la Moldavia si dichiarasse indipendente, il 24 Agosto del 1991, questo piccolo lembo di terra che copre due terzi del confine con l’Ucraina lo era già, con il nome di Repubblica Moldava di Transnistria, ribattezzata poi Pridnestrovie. La rivendicazione da parte della Moldavia della sovranità sul territorio causò lo scoppio delle belligeranze, che durarono 141 giorni e si protrassero fino al Luglio del 1992: da una parte l’esercito moldavo, dall’altra i volontari transnistriani e le forze armate russe, rappresentate dalla 14° Armata Rossa, che a Tiraspol, la città più importante della regione, aveva storicamente sede. La lotta impari sancì l’indipendenza de facto, ma non de jure, perché non riconosciuta da alcuno stato straniero. Igor Smirnov, industriale russo, uno dei leader politici della lotta per l’indipendenza, venne designato presidente ed il piccolo e pretenzioso stato si dotò di un proprio esercito, civile e militare, una linea di frontiera e una propria valuta, il rublo della Transnistria, con tanto di falce e martello a rimarcare la continuità con la grande madre ed il proprio passato. All’epoca dei fatti la Transnistria e la sua capitale Tiraspol erano le aree più sviluppate del paese. Oggi è la regione più povera d’Europa. Un terzo della popolazione è scappata da queste zone verso l’Inghilterra, la Scozia o i paesi scandinavi. Non sono gli unici primati che detiene: è anche la sede del deposito militare più grande del continente. Igor Smirnov, 18 anni dopo, detiene ancora la massima carica dello stato, riconfermato alle ultime elezioni 2006 con l’82,4 % dei voti.

In Transnistria la parola opposizione è un eufemismo: il dipartimento di Stato Americano, nel “Report annuale sul rispetto dei diritti umani e civili nel mondo 2006”, dichiarò che “la probabilità dei cittadini transnistriani di cambiare il proprio governo era minima” e che “le autorità locali avevano interferito sulla possibilità di voto. Le medesime , secondo alcuni resoconti, hanno fatto uso di torture, arresti arbitrari e detenzione”. Ne sa qualche cosa Nadezhda Bondarenko, leader del Partito Comunista, giunta seconda alle ultime elezioni presidenziali, che nel marzo del 2007 e stata detenuta per tre giorni dopo aver partecipato ad una manifestazione antigovernativa. Solo 15 dei 43 membri del Parlamento sono nati in Transnistria: la maggior parte di essi non ricopre ruoli di governo. Il 17 Settembre del 2006 ha avuto luogo in tutta la regione il referendum sull’Indipendenza. Il “Comitato Helsinki per i Diritti Umani” fu testimone di strani episodi durante lo svolgimento: centinaia di elettori si presentarono alle urne senza documenti validi. Si chiama “electoral tourism”: qualcuno organizza un pullman, lo carica di gente e li porta in gita, tutto spesato, in una località dove, guarda caso, ci sono delle votazioni in corso. Una croce su un foglio per un giorno di vacanza gratuita. Risultato: gli indipendentisti vinsero con il 97,2 %. Né l’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa, né le altre organizzazioni internazionali presenti considerarono valido l’evento.

Gira la voce che le armi in Transnistria si producano anche, di nascosto, tra i capannoni della periferia urbana. Da qui, secondo Vladimir Orlov, direttore del PIR-Center Policy Studies di Mosca, sono partiti i rifornimenti per Al Qaeda, Hamas e Hezbollah, per Iraq, Iran, Palestina, Cecenia e Nagorno Karabakh. Si sospetta che, a provvedere all’esportazione sia la compagnia Sheriff, l’unica nel territorio che opera all’estero. Sheriff è anche una catena di supermercati, di distributori di benzina, una stazione televisiva ed una casa editrice; è unico rivenditore autorizzato Mercedes-Benz e possiede la squadra di calcio FC Sheriff, da 8 anni indiscussa dominatrice del campionato moldavo. “Kommersant”, quotidiano russo, ha più volte ipotizzato un profondo legame tra la Sheriff ed i figli del presidente, Vladimir ed Oleg Smirnov, accreditati rispettivamente come presidente e consulente delle frontiere nazionali: una tesi avallata considerando i “particolari” privilegi dell’azienda, che sembra essere esente dal pagamento di dazi doganali. L’altro gigante dell’economia locale è l’istituto creditizio Gazprombank, un nome per nulla nuovo, sulla cui proprietà si possono fare solo supposizioni: Gazprom è il colosso dell’energia russo, Gazprombank è la più importante società bancaria russa.

Dicono che entrare in Transnistria senza sapere nulla di russo è praticamente impossibile. Mi consigliano di cercare un accompagnatore. Sono fortunato: lo trovo tra gli indirizzi delle persone che avevo contattato prima di partire. A. ha 25 anni, ha studiato a Londra, ma è ritornato nel suo paese per lavorare con un’associazione non governativa che si occupa della promozione dell’educazione nelle zone rurali. Guadagna 100 € al mese: ha abbandonato un remunerativo futuro come traduttore specializzato per cercare di cambiare qualche cosa nella sua terra, dare una speranza a chi è rimasto e non è fuggito. Per entrare in Transnistria bisogna passare il confine. Tra la linea di frontiera moldava e transnistriana noto alcune jeep militari con a bordo soldati armati: “Sono russi”, mi spiega, “le cosiddette forze di pace…”, con un sorriso velato d’amarezza. Nella regione non si può sostare più di 10 ore senza regolare permesso rilasciato dalla stazione di polizia locale. A. ha due passaporti: l’uno è un’identità nascosta nell’altro territorio.

Al confine veniamo fermati, perquisiti e dobbiamo aspettare un’ora prima di ottenere i documenti necessari per il passaggio. “Oggi è andata bene”, sospira, “di solito mi accusano di essere una spia moldava, poi sgancio qualche soldo e mi lasciano andare…”. Osservo sospeso sopra l’ufficio doganale lo stemma della Repubblica di Pridnestrovie: la falce, il martello e la stella rossa che sovrastano il sole ed il fiume Nistro di sfondo. Tutto ciò che rimane di quella che consideravo la più bella utopia del mondo. I prodotti della terra, frumento, pomodori ed uva stilizzati a contorno. Riprendiamo il viaggio; terreni aridi e pochi campi coltivati fiancheggiano la strada asfaltata. È un altro dei ricordi dell’occupazione: lo sfruttamento senza criterio dei terreni agricoli, con pesticidi e fertilizzanti artificiali, al fine dell’iperproduttività, ha portato alla contaminazione da componenti chimici del suolo e delle falde acquifere, con conseguente infecondità ed impoverimento. Si calcola che alla fine degli anni Ottanta, l’utilizzo dei pesticidi in Moldavia era circa 20 volte superiore a quello delle altre repubbliche sovietiche.

Hotel Cicogna

La corriera passa per il ponte presso il villaggio di Bendery, dove il conflitto ha avuto inizio. Un tank russo, sistemato su un piedistallo, ricorda l’evento. Arriviamo finalmente a Tiraspol ed una struttura enorme, ipermoderna, accoglie i pochi visitatori alle porte della città. Prato inglese, bianco limpido delle mura ed azzurro cielo delle insegne e dei tetti, in mezzo, in evidenza, lo stemma Mercedes-Benz: è lo stadio di calcio dove gioca lo Sheriff. “Il capriccio del figlio del presidente è costato 200 milioni di dollari”, mi ricorda A. Lo sfarzo monumentale di regime. Intorno gli edifici diroccati rispecchiano la stessa tipologia che ho conosciuto a Chisinau: grandi palazzine, pressoché identiche, disposte in serie, a più piani, strutture malridotte la cui intelaiatura in ferro riaffiora prepotente, linee geometriche che sembrano aver perso la propria stabilità. Subito dopo scorgo una zona recintata con le bandiere russe. Uno degli stazionamenti dell’esercito dislocati in città. Il centro è praticamente vuoto: poca gente che passeggia, apparentemente senza una meta precisa. Ci dirigiamo verso il corso del fiume: là è situato l’unico albergo della città ed A. insiste per mostrarmelo.

È un edificio a cinque piani, sul cui tetto campeggia la scritta “Gostinica Aist”, Hotel Cicogna: nell’immaginario folcloristico locale vedere una cicogna da lontano significa cambiamento, mentre, appollaiata su un camino, stabilità. Forse è per questo che l’hotel è quasi completamente deserto. Appare come un enorme rudere che la funzionalità non ha potuto salvaguardare dall’incuria del tempo. Il degrado del cemento armato, l’opacità dei pannelli di compensato che delimitano le terrazze, l’incuria dei particolari trasmettono il senso dell’abbandono. Ci accoglie una donna grassa che si dimena, spaventata da un moscerino che la perseguita: gli occhiali enormi che cadono sulle guance, sorretti da un altrettanto consistente poro della pelle. La camera dove alloggio, presso una signora che avevo contattato in precedenza via internet, invece, è un soggiorno semplice ed arredato con mobili riciclati, nel mezzo del quale spicca una foto di una donna dai lineamenti così maschili che l’unico motivo per cui ne comprendo il sesso è la pettinatura, con il lungo carré che scende sulle spalle ondulato, stile anni Cinquanta.

Nel centro della città si respira un’atmosfera insana, di luogo che ha già superato la soglia dell’avvilimento, ormai approdato allo stato di rassegnazione. Pochissime sono le attività commerciali: un negozio di scarpe, un casinò – attività assai frequente in queste regioni, nel solo centro di Chisinau ne avevo contati più di 20, ed una strana costante nei paesi sotto la soglia della povertà, come a rimarcare la disperazione del “tentare il tutto per tutto” -, un paio di bar, la distilleria Kvint, che produce l’omonimo liquore tradizionale, un internet point, l’unico della città, dove i bambini si ritrovano per giocare ai vari Armageddon, Silent Hill, Resident Evil su sistemi operativi vecchissimi, e, talvolta, vengono raggiunti dai militari, che, evidentemente, non hanno molto altro da fare. L’aria è stagnante, nonostante gli spazi enormi che contraddistinguono l’urbanistica. I monumenti al socialismo riempiono la visuale.

Tiraspol è l’unica città in Europa dove il passato d’occupazione non è mai stato rinnegato: statue a Lenin, Gagarin, ai militi morti nella guerra dell’Afghanistan, bandiere russe e transnistriane, monumenti alla grandezza dell’Unione Sovietica, falci e martello, stelle rosse, una lunga carrellata fotografica di eroi del socialismo, fino ad arrivare all’attuale presidente Smirnov. I simboli di ciò che un tempo avrei giudicato come meraviglioso, mi appaiono bui, insignificanti, di fronte ad un’autoglorificazione che ha privato questa gente di qualsiasi vitalità. Lo spettro della città rispecchia il volto delle poche anime rimaste, svuotate, disilluse da una stato di sottomissione che opprime con sgomento. D’altronde è quello che vuole chi detiene il potere, la famiglia Smirnov, e che desidera anche il governo russo. Dietro la colonna che sorregge la statua di un Lenin rosso, granitico, un volto immortalato in un’espressione d’arringa, forse di rimprovero a chi ha distrutto il sogno del socialismo reale, almeno nel mio persistere che non tutto sia da rinnegare, ecco il Palazzo del Parlamento.

Scattare foto a monumenti e a militari è vietato, farle alle persone è poco consigliato, perché la gente non ama essere ritratta, un po’ per paura un po’ per orgoglio: a nessuno piace mostrare la propria condizione di miseria! Ma io ho la necessità di documentare. In questo Palazzo il presidente Smirnov ha teso la trama del suo potere. L’interesse della Russia è quello di poter mantenere il controllo su tutta quest’area che si affaccia sul Mar Nero e non solo. La Transnistria assicura una base militare strategica nel cuore dei paesi che hanno già avviato la procedura d’inquadramento ai criteri economici e politici necessari per l’ingresso nell’Unione Europea, come la Moldavia e l’Ucraina, ma è anche non molto distante dalla Polonia, dalla Romania e dalla Slovacchia, che della Ue fanno già parte. La Transnistria è una spina nel fianco, che lavora in continuazione nella direzione di un deceleramento del processo d’integrazione. Bruxelles lo sa: non è un caso che l’Ucraina abbia posto il veto sul passaggio di mezzi di trasporto merci non autorizzati dallo stato moldavo, nemmeno che il giorno successivo, quando sono alla frontiera ucraina, in direzione di Odessa, incontro proprio due militari italiani. Che ci fanno? Portano una maglietta con le 12 stelle disposte a cerchio su sfondo blu, il simbolo della Comunità Europea, e dicono di trovarsi lì per aiutare i colleghi.

Putin e Che Guevara

È il 26 Agosto 2008: la radio e le televisioni diffondono il comunicato del riconoscimento dell’indipendenza dell’Ossezia del Sud e dell’Abcazia. Per le strade sventolano bandiere russe. Alcuni operai preparano una tribuna per i festeggiamenti ed issano gli stendardi dei vincitori. Ragazzini distribuiscono volantini e giornali, elemosinando nel frattempo qualche spicciolo. All’ombra di una parete grande è stato allestito uno stand, al cui tavolo stanno altri due giovani dall’aria svogliata. Dietro campeggiano dei poster, su sfondo giallo, il volto di Putin, del neo presidente russo Medvedev e del Che Guevara. Una strana associazione: i nuovi zar della Russia, quelli che una volta lavoravano per il KGB, e che oggi si fregiano del capitalismo più sregolato, usano gli alti ideali e l’utopia del mito guevariano per far continuare a bruciare il focolare della ribellione, là dove il sogno non esiste più.

Sta per scadere il mio permesso e devo andarmene. Saluto A. e gli prometto che farò tutto ciò che sarà possibile per far conoscere questa realtà nell’Occidente. Mi fermo qualche minuto nel bar di fronte alla piazza centrale: un ragazzo, con fare più svogliato degli altri, si fa incontro, spiaccicando delle parole in inglese. Vuole sapere da dove vengo e, dalla risposta, rimane evidentemente sorpreso: “Italy, good!!! Del Piero, Cannavaro, Buffon.” Sorrido. Mi chiedo se qualcuno di queste star del calcio nostrano abbia mai sentito parlare della Transnistria. Una bimba bionda con un vestitino rosa balla a pochi metri dal mio tavolo: imita le ballerine di break dance che probabilmente ha visto in televisione. Si ferma, guarda verso il centro della piazza, dove altri bimbi giocano nella fontana vuota, rinsecchita. Sullo sfondo un militare transnistriano, goffo, arranca a fatica su una vecchia bicicletta arrugginita. Penso a quanto sia buffo che il paese con il più grande arsenale d’Europa abbia un esercito così mal fornito: d’altronde, le armi, non sono affatto loro. Dietro di me gli altoparlanti trasmettono musica; riconosco da subito il pezzo, “Wind of Change”, gli Scorpions… Può la danza, la musica, il sogno di un mondo lontano ed immaginario, ridare la speranza alle giovani creature di questa terra isolata?

Torno all’appartamento per raccogliere le mie cose e partire. Il figlio della donna che mi ospita, un bambino di 4 anni, mi afferra per il braccio e trascina con forza nella sua stanza: prima che me ne vada vuole mostrarmi la sua collezione di monete straniere. C’è un Euro, qualche Rublo russo, ma il resto non va al di là della Moldavia ed al di qua dell’Ucraina. Vedo che cosa ho in tasca e gli regalo un paio di monete mancanti alla collezione. Sulla parete di fronte c’è una cartina d’Europa: allora gli illustro da dove vengono i 50 centesimi della Germania, con la porta di Brandeburgo, e gli indico Berlino, poi i 5 centesimi con il Colosseo, l’Italia. “Da qui vengo io”, dico, e lui ci appoggia la monetina. Ora è lui che mi mostra la Moldavia e ci riversa sopra tante monete, un miscuglio di Rubli transnistriani e di Leu moldavi: troppo piccolo lo spazio per distinguerli con precisione, non c’è nessuna finta linea di confine che li possa contenere tutti insieme. Troppo piccolo ed innocente questo bimbo per capire perché gli uomini non possono lavorare insieme per un futuro migliore.

Alla frontiera è un delirio: le guardie doganali si presentano subito molto aggressive, vogliono soldi. Apparentemente nessuno parla inglese o tedesco, solo russo. Mi aiuta una ragazza che è sulla corriera ed immediatamente viene apostrofata come “whore, bitch”, puttana, “quanto l’hai pagata?”, ed a malo modo viene rimessa in vettura. Controllano la macchina fotografica ma, fortunatamente, avevo già sostituito la memory stick con quella con le foto di Chisinau. A vedere le immagini dei palazzi distrutti della capitale nemica, i poliziotti ridono. Alla fine mi lasciano andare, contenti di essersi sentiti per un momento più forti di un ragazzo dell’Ovest. Quando torno a Berlino, il pensiero fisso è quello di tenere fede alla promessa ad A., cercando di far pubblicare le esperienze del mio viaggio. La redattrice di uno dei più importanti giornali italiani mi accoglie telefonicamente con un “per quel che riguarda quella regione, se ne occupa il nostro inviato da Mosca!”. Le rispondo con un ironico “…e per quello che succede in Afghanistan o Iraq se ne occupa il vostro inviato da Washington?”. Poi sbatto il telefono e mi abbandono, esausto, sul divano. Vedo lampeggiare l’icona dei messaggi in entrata sul desktop del mio notebook: è il mio amico da Tiraspol. Scrive che il giorno dopo che sono partito, è stato fermato di nuovo alla frontiera, sempre con l’accusa di essere una spia, ma questa volta sembravano mal intenzionati. Alla fine se l’è cavata con qualche minaccia; è spaventato, ma mi ringrazia perché “la gente deve sapere, deve aiutarci ad uscire da questo giogo, nel loro e nel nostro interesse…”. Sono io che devo ringraziarlo, perché sono le persone come lui che rendono ogni parte del mondo degna di essere conosciuta. Non gli dico nulla della risposta della redattrice, non me la sento di spegnere la speranza.

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