“Le altissime torri” ovvero capire il nemico
Daniele Castellani Perelli 5 marzo 2008

Uno dei punti fondamentali del libro è che i vertici di Al Qaeda non sono pazzi, ma dei lucidi politici con in testa un chiaro disegno politico. Sembrerebbe un’ovvietà, ma così non è. Fare questa precisazione non significa concedere alcunché al nemico, bensì conoscerlo meglio: un fattore fondamentale se lo si vuole davvero sconfiggere. Capire il nemico terrorista è importante anche perché spesso mettersi nella sua testa può gettare luce sui propri errori. Non solo quelli tattici, ma anche quelli strategici. Gli errori della politica estera americana non possono in alcun modo legittimare le azioni di Al Qaeda. Tuttavia gli Stati Uniti, se vogliono sconfiggere la rete del terrore, non possono non domandarsi se abbiano sbagliato qualcosa in questi anni, e se questo qualcosa sia uno dei motivi dell’odio che i popoli arabo-islamici provano verso di loro. C’era un tempo, ricorda Wright, in cui “l’America era estranea alle avventure colonialiste che avevano caratterizzato i rapporti dell’Europa con il mondo arabo. Si era anzi tentati di guardare all’America come alla pietra di paragone dell’anticolonialismo: nazione soggetta, essa aveva spezzato le catene e trionfalmente sopravanzato i suoi vecchi padroni”.

Poi, cosa è successo? E’ successo, anzitutto, che il nome dell’America si è legato in Medio Oriente a tiranni e politici corrotti. Alcuni di questi, peraltro, hanno avuto un peso decisamente più rilevante di quello degli Usa nella nascita del terrorismo islamico internazionale. “Una scuola di pensiero ritiene che la tragedia americana dell’11 settembre sia cominciata nelle prigioni egiziane”, scrive Wright, ripercorrendo l’emblematica storia di Sayyid Qutb, l’ideologo dei Fratelli musulmani e poi ispiratore dei vertici di Al Qaeda. Il pensiero di Qutb, noto intellettuale egiziano, si sarebbe infatti radicalizzato nelle prigioni egiziane degli anni ’50: le torture da lui ingiustamente subite avrebbero creato “un desiderio di vendetta” prima in lui e poi “nei suoi accoliti, incluso Ayman az-Zawahiri”, che sarebbe divenuto negli anni Novanta il vice di Bin Laden. E’ in questo senso di umiliazione che va ricercata una delle origine del terrorismo islamista, e bene farebbero a tenerne conto per il futuro quanti negli ultimi anni hanno sostenuto gravissime pratiche di umiliazione del popolo arabo come l’invasione irachena o le prigioni di Abu Ghreib.

Capire la personalità di Bin Laden significa anche non sottovalutare l’impatto emotivo che può dare all’uomo della strada araba il contrasto tra quel principe saudita (tanto per fare un esempio) che nei primi anni ’50 lanciava in aria banconote quando passava per le strade (creando “praticamente da solo un nuovo stereotipo saudita”) e la figura magra, austera e persino umile di Osama. Capire il nemico significa sapere che la storia di Al Qaeda è ricca di tradimenti e faide interne, che l’Occidente può sfruttare nella sua guerra al terrore. Significa saper distinguere tra le persone e i movimenti, tanto che Zawahiri odia oggi i Fratelli musulmani e Hamas, e “Bin Laden odiava Yasser Arafat in quanto uomo di mentalità laica”. Ben lungi dal giustificare il terrorismo, alieno da ogni ipotesi complottista, Wright fornisce una ricostruzione saggia ed equilibrata di “come Al Qaeda giunse all’11 settembre”, e scrive un duro atto d’accusa contro i servizi d’intelligence americani, impegnati in un conflitto suicida tra Cia e Fbi e altamente impreparati: “Anche nel mondo dell’intelligence, erano molto pochi gli americani che avevano una pur pallida idea della rete di islamismi radicali che si era sviluppata nel paese – annota – Se invece di parlare arabo lo sceicco cieco (Omar Abd ar-Rahman, ideologo del primo attacco al World Trade Center del 1993, ndr), avesse parlato marziano, il risultato sarebbe stato più o meno lo stesso, perché gli specialisti di lingue mediorientali al servizio dell’Fbi, per tacere della polizia locale, erano pochissimi”.

Wright ripercorre la vita di Qutb, di Bin Laden, dib Zawahiri. Ricorda l’epoca dell’invasione sovietica in Afghanistan e della collaborazione tra la Cia e Osama. Rievoca che Al Qaeda nacque inizialmente, nel 1988, come un movimento anti-comunista (lo dimostrò anche nello Yemen del sud). E poi racconta dei viaggi di Zawahiri in Bulgaria e in California, e di un Osama “sorprendentemente permissivo con le mogli impegnate in una professione”. Un viaggio intenso e affascinante, che si conclude con un commovente omaggio alle vittime dell’11 settembre: “Per tanti aspetti, i morti del Wtc formavano una sorta di parlamento universale: erano rappresentati sessantadue paesi e quasi tutti i gruppi etnici e le religioni del mondo. C’era un agente di borsa ex hippie, il cappellano cattolico e gay del Dipartimento Vigili del Fuoco di New York, un giocatore di hockey giapponese, un sous-chef ecuadoriano, un collezionista di bambole Barbie, un calligrafo vegetariano, un contabile palestinese, Il bersaglio di Al Qaeda era stato l’America, ma essa aveva colpito l’intera umanità”.