Zingari, la vita amara di uno strano popolo
Francesca Giorgi 9 gennaio 2008

Un libro che tenta di ricostruire le origini delle popolazioni zingare e le ragioni della loro diversità culturale, per poi immaginare, calandosi nella specificità del caso italiano, dei possibili modelli di convivenza pacifica fra “noi” e “loro”. Perché, come rileva lo stesso Mannoia, in Italia “si preferisce parlare e scrivere di zingari solo ed esclusivamente in occasione di qualche fatto di cronaca, quasi sempre nera, piuttosto che discutere nelle sedi appropriate del problema delle differenze e di quello della loro tutela come minoranza etnica”.

Leggendo, apprendiamo che il pregiudizio antizingaro è nato con l’arrivo stesso dei rom in Europa, già nel medioevo, e che è originato soprattutto dalla loro ghettizzazione e dalla scarsa conoscenza delle loro abitudini di vita da parte delle società di accoglienza. La diffidenza nei confronti dei rom non si è attenuata nel corso dei secoli, trasformandosi in vero e proprio razzismo tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, e sfociando poi nel genocidio nazista, che essi stessi chiamano Porrajmos (“quello che divora”). Si calcola che vi morirono circa 500.000 zingari, pari al 70-80% dell’intera popolazione zingara europea. Eppure, al termine del secondo conflitto mondiale, alle popolazioni rom non venne accordato nessun risarcimento, né le loro condizioni di vita sono in alcun modo migliorate.

Dunque, suggerisce Mannoia, se si vuole porre fine a questa situazione di degrado, separazione, precarietà e intolleranza, è necessario far sì che la vita delle popolazioni zingare venga in qualche modo “svelata”, per apparire più vicina, semplice, umana. È necessario innanzitutto comprendere che gli zingari sono “un mondo di mondi”, che appartengono a molti luoghi e a molte culture, e che non possono essere considerati tutti uguali. In secondo luogo, è fondamentale considerare la loro diversa concezione dello spazio e del tempo, cardine di qualsiasi organizzazione sociale. Scrive Mannoia: “Il tempo dei nomadi non prevede alcuna pianificazione, non costringe gli individui a un adattamento forzato. È un tempo nel quale la dimensione sociale sovrasta di gran lunga quella individuale (…). Diversamente dalla nostra cultura, quella zingara non prevede alcuna separazione tra lo spazio sociale e quello individuale: tutto lo spazio è comunitario”.

Solo aprendosi a queste diversità le società europee potranno sviluppare delle politiche più efficaci per l’integrazione dei Rom, superando quei fallimenti che nel corso di tutto il dopoguerra hanno caratterizzato, particolarmente in Italia, i tentativi compiuti nel campo della scolarizzazione, della sanità, del lavoro e della devianza. Zingari, che strano popolo! è dunque un libro importante, perché tenta di gettare un po’ di luce su un universo troppo spesso nascosto e ignorato. Il suo merito principale è quello di non tentare di dare risposte, ma di chiedere al lettore in prima persona lo sforzo di mettere in discussione le proprie sicurezze che, in un modo o nell’altro, gli derivano dal pregiudizio. Il lavoro di Mannoia ha l’unico difetto di apparire spesso troppo accademico, quasi volesse parlare solo agli “addetti ai lavori”, facendo torto in questo modo alle sue reali potenzialità di divulgazione. La questione zingara non può essere risolta senza il coinvolgimento di tutta la società, ed è per questo che è necessario parlare a tutti, cittadini e istituzioni, nella maniera più ampia possibile. O, almeno, provarci.