La miseria del giornalismo
Lanfranco Vaccari 25 luglio 2007

Questo articolo è apparso sulla prima pagina de Il Secolo XIX il 24 luglio 2007

Centinaia di intellettuali (tra cui l’editorialista del Secolo XIX David Bidussa) firmano su Reset un documento in cui si stigmatizza che, nel suo ultimo libro, Magdi Allam punti il dito contro due accademici “inconsapevolmente o irresponsabilmente collusi con l’ideologia di morte” dei fondamentalismi musulmani – e poi generalizzi l’accusa. Giovedì scorso, sul Corriere della Sera, Pier Luigi Battista sostiene che quella petizione vuole “mettere un libro all’indice”. Aggiunge, stravolgendone la lettera e lo spirito, che il “documento-anatema” manda “simbolicamente al rogo” Viva Israele. Scambia un appello contro la prassi apodittica di accusare qualcuno di “collusione con un’ideologia di morte”, senza portare la minima prova o il più piccolo riscontro con un “ ‘no’ al libro, un ‘contro Allam’”. Attribuisce ai firmatari l’intenzione di apporre al libro e al suo autore “il marchio di pericolosità”, del discredito, della delegittimazione preventiva e dunque sleale”.

Sabato, su questo giornale, Bidussa risponde cercando di separare “il principio che mi porta a difendere la vita e la libertà di scrittura di Magdi Allam [dalla] pratica del sospetto: una posizione debole e non difendibile”. E ricorda di aver fatto esattamente ciò che Battista chiede (ma di cui nel suo articolo non fa menzione): ha scritto una lunga recensione, pubblicata nello stesso numero di Reset, in cui critica la tesi di Allam. Ieri, nella sua rubrica settimanale sul Corriere, Battista persiste nella sua mistificazione. Continua a sostenere che l’appello vuole “mettere all’indice” il libro, che esso scatena “una campagna feroce contro il libro e il suo autore”, che “inequivocabilmente appare come un’arma di intimidazione”. Su un piano più personale accusa Bidussa di voler “negare il rilievo” dell’appello e di cercare “una scusa, una giustificazione che non sta in piedi”.

Ora, il modo di ragionare di Battista è francamente singolare. Monta un polverone contro una pretesa (e inesistente, se le parole hanno un senso) “tentazione censoria”. Quando Bidussa gli fa notare che non ha fatto bene il suo mestiere, perché non ha correttamente dato tutte le informazioni sulla polemica, finge di non sentire e va avanti imperterrito per la sua strada. E’ una strada scivolosa. Secondo un costume molto diffuso in questi anni confusi, Battista si fa paladino di una lettura dei fatti strettamente ideologica, strumentalizzando ai suoi fini una posizione (l’idea che non si possa prescindere dall’onere della prova per ciò che si dice e si scrive) che dovrebbe essere ovvia proprio per chi, come egli sostiene di sé, vorrebbe “una libera discussione politico-culturale”.

Non entra mai nello specifico. Non si degna di farci sapere se sia corretto accusare genericamente qualcuno di “collusione con un’ideologia di morte’”. No: preferisce, con una spericolata giravolta, guaire contro i “mostrificatori” (orribile neologismo). Che sarebbero poi coloro che pretendono ragionevoli prove quando si addossano a qualcuno accuse pesanti, non già chi punta l’indice (questa volta sì) senza curarsi di articolare il suo pensiero. Pare di capire che Battista non sopporti “la vetusta consuetudine firmaiola”. Ed è facile essere d’accordo. Ma questo non gli consente di prescindere dal contenuto dell’appello, cosa alla quale egli si abbandona con serena disinvoltura, né tantomeno attribuire al medesimo intenzioni di cui non si trova traccia, cosa ancora più grave e alla quale egli non si sottrae. Pare anche di capire qualcosa di più disturbante. E cioè che Battista non sopporti che qualcuno coltivi la possibilità di criticare Israele – meglio ancora: l’idea che di Israele propone Allam. Se è così siamo molto vicini alla pretesa del pensiero unico. Come accade a tutte le idee totalizzanti, anche a questa manca pochissimo per diventare totalitaria.

Lanfranco Vaccari è il direttore de Il Secolo XIX