Felicita’ addio, benvenuta vitalita’: la via cinese
Elisabetta Ambrosi 21 dicembre 2006

Vivere senza cercare sempre un senso, senza pensare alla felicità, senza agire per obiettivi, senza avere paura della morte: una cosa impossibile, per chi è vissuto nei grovigli semantici ed affettivi dell’educazione occidentale? Forse sì, però qualcosa lo possiamo imparare, aprendo il nostro modo di vivere e pensare alla riflessione cinese: questo il suggerimento del sinologo francese François Jullien in un suggestivo volume appena edito da Cortina, Nutrire la vita senza aspirare alla felicità (Cortina, 2006, pp. 184 euro 13,50), un saggio che riprende le meditazioni contenute in uno dei testi base del taoismo, lo Zhuanghi.

“Nutrire la vita” è l’espressione che sintetizza la saggezza del pensiero cinese. Ma che significa questa affermazione? Per prima cosa, nota Jullien, essa sfugge alla grande scissione metafisica tra corpo e anima tipica dell’Occidente, separazione che segna anche le società secolarizzate del ventesimo secolo, perché la visione dualista continua a vivere nell’idea di uno psichismo e di un apparato mentale suscettibile di essere studiato in sé. Così come continua ad esistere nella “sotto-letteratura” relativa al benessere e alla salute, che fiorisce sulle riviste delle società secolarizzate, e che, facendo spesso riferimento alla Cina come una sorta di valvola di sfogo, attinge alle “acque torbide dove vanno a pescare e predicare tutti i propagandisti di quello che ormai convenzionalmente si chiama ‘sviluppo personale’”.

Al contrario, la Cina pensa di nutrire non l’anima (a cui subentra semmai l’animazione), ma la vita, proprio perché con essa intende l’insieme dei processi intellettuali-spirituali e organici, prima della loro dissociazione (non a caso essa si focalizza non sulla testa, ma nel cuore o nel ventre). Il mio corpo è allora definibile unicamente come “l’attualizzazione particolare in continua modificazione che, in quanto tale, mi costituisce pienamente e forma la mia sola identità possibile”. In breve, esso è tutto il mio essere vitale, ciò che il “cielo” mi ha conferito e integra in sé anche l’attitudine morale. Il pensiero cinese è senza ontologia, perché, proprio come in esso non vi è anima, così non vi è concetto di materia che vi si opponga. Questa visione si riflette, com’è noto, nella concezione cinese della medicina, in cui, al di là del rifiuto di un modello ideale di salute e dell’uso della chirurgia invasiva, si protegge l’omeostasi dell’individuo, la sua regolazione di fondo che è psichica, emozionale, e somatica.

In questa prospettiva, “nutrire la vita” significa soprattutto conservare e dispiegare il proprio potenziale vitale, per avere limpidezza e longevità (ma non immortalità). A sua volta, la cura della mia vitalità avviene attraverso una costante depurazione, che passa “dal processo di affinamento-decantazione che mi induce a liberarmi dei punti di fissazione, blocco e pesantezza”, così come dalle prospettive ideologiche, che sovraccaricano la mia natura. Lo Zhuanghi utilizza la metafora dell’“essere in vacanza”, intendendo con essa una modalità dell’esistere che lascia giocosamente libera la propria reattività, ripulita da obblighi e convenzioni. Un’altra, suggestiva, immagine di questo atteggiamento verso la vita è anche quella del “lasciarsi fluttuare”, che non significa esitare, ma neppure andare alla deriva, quanto piuttosto “riflettere”, come uno specchio, lasciando apparire senza fissare alcunché. L’unica morale, la mia vocazione e sola responsabilità, è quella di curare e mantenere il potenziale di vita di cui sono investito.

Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, il gioco libero e la fluttuazione non coincidono in alcun modo con una forma di dispendio energetico, ma al contrario sono frutto di un’amministrazione programmata del proprio potenziale vitale. Né scaturiscono da una fatua eccitazione, ma proprio dal suo inverso, da quel processo di incitazione interna che tuttavia si distingue dall’intenzionalità occidentale perché non ha a che fare con la volizione, sempre fonte di conflitto. Al tempo stesso, questo paziente lavoro di “economia domestica” in casa propria non conduce ad una fissazione sulla vita stessa, al tentativo disperato di salvarla dalla morte, perché, congiungendosi intimamente con la logica del vitale, esso vede la vita stessa, così come la morte, come un fenomeno che ci oltrepassa, e di cui, al pari, non possiamo impadronirci. L’assonanza con la massima evangelica “Chi cerca la sua vita, vuol avere per sé la vita, la perde e chi perde la sua vita, la trova” è forte ma, ricorda Jullien, il pensiero cinese resta tutto interno alla logica, immanente, della vita. Esiste sì un principio di trascendenza, rappresentato dalla realtà del cielo, che incarna la regolazione naturale del grande processo del mondo, e che agisce come una molla interna al mio essere. Ma certo è radicalmente diverso dal monoteismo occidentale e mediorientale.

Anzi, la prospettiva cinese si differenzia drasticamente da quel modello morale e teologico anche e soprattutto per il fatto che rifiuta sia l’idea che la vita abbia un senso (“Vivere non ha un senso, né è assurdo: ma è fuori senso”) sia quella secondo cui lo scopo dell’esistenza sia la felicità. Quest’ultima affermazione è forse la più contestata, perché, se la divergenza di teorie e religioni è un fatto assodato, l’aspirazione alla felicità sembra davvero accomunare tutti gli uomini. Eppure, nutrire la vita apre un’altra possibilità, un’altra logica, quella dell’affinamento-trasformazione che si sviluppa in alternativa alla ricerca e alla conquista, dunque in alternativa alla felicità, che è strettamente legata – nel pensiero occidentale – all’idea di scopo. Anzi, si può dire che la filosofia europea si sia sempre fronteggiata con un elemento tragico, quello di non poter rinunciare all’idea di una finalità positiva, pur constatando che la felicità è un fine purtroppo irraggiungibile. Di qui una drammatizzazione dell’esistenza e la ricerca affannosa di vie per sfuggire a questa aporia che è invece assente nel pensiero cinese. Infatti, secondo quest’ultimo, è solo cessando di sottoporsi a scopi che la vita arriva a produrre sufficienti capacità di autoincitamento, tanto da determinarsi da sé, e produrre effetti, senza che noi ci poniamo alcuna mira.