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  • Fabio Dei

    Parallelamente, il tema dell’interpretazione si è fatto spazio nella tradizione comprendente delle scienze umane: in quegli approcci, cioè, che considerano il significato come costitutivo dei fatti sociali. In questa chiave, il sapere socio-antropologico si configura come tentativo di accedere ai sistemi di significato “nativi”. Un tale accesso non implica una partecipazione empatica, un “entrare nella testa” degli attori sociali: passa invece necessariamente attraverso la mediazione comunicativa e soprattutto linguistica, e ha dunque molto in comune con l’interpretazione di un testo.

    L’analogia tra comprensione della cultura e comprensione del linguaggio, in antropologia, era già stata al centro del progetto strutturalista. Ma per Lévi-Strauss la comunicazione interculturale è sempre assicurata dalle strutture universali dell’inconscio linguistico; per gli indirizzi ermeneutici, invece, la comprensione è impresa eminentemente pratica, mai garantita da un metodo o da regole universali di equivalenza, sempre possibile ma sempre imperfetta. L’accesso al significato “nativo” non è questione di tutto o nulla, come nel caso dell’equivalenza logica tra sistemi formalizzati, ma di faticose approssimazioni.

    Nel dibattito contemporaneo, questo approccio è stato sostenuto nella sua forma più efficace e suggestiva da Clifford Geertz, ed ha una sorta di manifesto nel suo libro (edito nel 1973) Interpretazione di culture. Punto di partenza del grande antropologo nordamericano, di recente scomparso, è la definizione (che egli fa risalire a Max Weber) dell’uomo come “animale sospeso fra ragnatele di significati che egli stesso ha tessuto”. Queste ragnatele sono la cultura: per capirle occorre “non una scienza sperimentale in cerca di leggi, ma una scienza interpretativa in cerca di significato”.

    Come procede dunque la conoscenza antropologica? Anche Geertz utilizza la metafora della lettura: fare etnografia è come leggere (magari di nascosto, dietro le spalle di qualcuno) un manoscritto straniero, sbiadito, pieno di ellissi, di incongruenze, di cancellature e di commenti svianti. Ma leggere qui significa “costruire una lettura di”: si tratta dunque a sua volta di un atto di scrittura. L’etnografo interpreta le interpretazioni dei “nativi”, e lo fa inscrivendole in un testo, producendo quella che Geertz (prendendo in prestito un termine di Ryle) chiama una “descrizione densa” (la contrapposizione tra descrizione “densa” ed “esigua” è ben rappresentata dal celebre esempio dello strizzare l’occhio: da un lato l’esigua descrizione fisicalista del movimento, dall’altra il tentativo di dar conto del complesso intreccio di significati che può avere per gli attori sociali, dal tic, all’ammiccamento, al falso ammiccamento, alla parodia e così via).

    Il libro di Geertz si colloca al culmine di un ampio dibattito tra filosofi e antropologi sul tema del relativismo: se culture diverse costituiscono strutture di significato incommensurabili, com’è possibile la comprensione reciproca? Sembra che quest’ultima possa essere assicurata solo dalla presenza di universali cognitivi, che non riusciamo però a cogliere se non in modo etnocentrico. La soluzione di Geertz (che egli stesso definirà in seguito anti-antirelativista) è che non c’è alcuna base o “testa di ponte” epistemologica che garantisca la comprensione (o che la impedisca). La comprensione passa attraverso le strategie pratiche che l’etnografo utilizza, e che si rivelano essere in definitiva strategie di scrittura. Le rappresentazioni culturali dell’etnografia sono dunque delle fiction, delle costruzioni autoriali totalmente immerse, non meno delle fiction letterarie, nell’opacità della retorica e della stilistica.

    Lo stesso realismo che caratterizza l’etnografia classica può allora rivelarsi non come il frutto di una epistemologia oggettivistica ma come una costruzione retorica, un effetto di realtà consapevolmente prodotto dagli autori. Questo riconoscimento apre due filoni di ricerca che avranno grande spazio nell’antropologia di fine ‘900. Da un lato, l’esplorazione dei rapporti tra etnografia e letteratura, con tentativi di analisi letteraria dei classici dell’antropologia e, al contrario, di romanzi come rappresentazioni culturali. Dall’altro lato, la sperimentazione di nuove forme di scrittura etnografica, basate su una “autorità” di tipo dialogico e sul consapevole impiego di stratagemmi letterari, narrativi e persino poetici. Queste direzioni di indagine si sono strettamente intrecciate con gli interessi del postmodernismo filosofico e letterario, conducendo talvolta a esiti schematici e ideologici da cui lo stesso Geertz prenderà con forza le distanze.

    I problemi che la tematica interpretativa lascia aperti riguardano ovviamente l’oggettività della conoscenza interculturale e i “limiti” dell’interpretazione. Per i sostenitori di una visione più “dura” o naturalistica delle scienze umane, l’assenza di un fondamento epistemologico e l’ineluttabilità della dimensione ermeneutica equivalgono alla rinuncia a qualunque criterio di verifica oggettiva: all’abbandono, dunque, della dimensione scientifica stessa. L’asserzione del carattere letterario o finzionale dell’etnografia, in particolare, sembra aprire la strada al totale arbitrio rappresentativo, al principio del “tutto va bene”. Bisogna riconoscere in effetti che gli approcci interpretativi lasciano irrisolto sia il problema degli universali sia quello della verifica, liquidandoli come irrilevanti in modo troppo sbrigativo.

    Tuttavia, occorre anche ricordare che essi rispondono a un’esigenza di maggiore, e non di minore, rigore scientifico: partono da un principio basilare di ogni scienza, che è l’analisi critica delle modalità di costituzione del proprio oggetto, vale a dire i “dati” etnografici. “Ciò che chiamiamo i nostri dati sono in realtà le nostre interpretazioni delle interpretazioni di altri su ciò che fanno loro e i loro compatrioti” – scriveva Geertz. Questo vale non solo per gli antropologi, ma per qualsiasi forma di sapere sugli altri. Non si può sfuggire a questo principio per pretendere di cogliere la realtà in modo più diretto, neutrale, oggettivo. È qui che la tematica interpretativa contagia inesorabilmente, e irreversibilmente, la dimensione della comprensione interculturale.