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  • Giorgio Fazio

    In esso si narra la storia di un esploratore che, naufragato su di un’isola  sconosciuta – u-topìa, letteralmente “luogo che non c’è”, fatto giocare per  assonanza con un altro neologismo greco, eu-topìa, “buon luogo” – si imbatte in una repubblica in cui vige la totale comunanza di beni, una società politica perfetta, fondata sul superamento dell’individualismo e dell¹intolleranza religiosa.

    Il modello razionalistico di More costituisce lo schema del modo di pensare utopico per lo meno fino alla metà del secolo XIX. La sua presenza si lascia ancora riconoscere infatti tanto nei programmi di trasformazione della società in senso socialistico degli esponenti del cosiddetto socialismo utopistico (Saint-Simon e Charles Fourier in Francia e Robert Owen in Inghilterra), quanto nei programmi di trasformazione della società di stampo positivistico elaborati da August Comte. Sebbene ritenesse di aver portato a conclusione l’intera parabola del pensiero utopico, è a sua volta Marx a dare avvio ad una nuova fase della tradizione utopica, destinata a germinare e a trovare delle riprese, pur attraverso notevoli slittamenti concettuali, nel corso del XX secolo.

    Nonostante la veste di scientificità e di realismo che la ammanta, la teoria marxiana dello sviluppo storico è innervata a ben vedere da tensioni utopiche, le cui radici affondano in una costellazione concettuale che ha le proprie matrici culturali nella tradizione giudaico-cristiana più che nel pensiero greco-platonico, e presenta, come riferimento centrale, più che la metafora dello spazio quella del tempo. Sebbene Marx ed Engels descrivano l’avvento della Rivoluzione come l’inevitabile esito di leggi scientifiche, l’iscrizione della loro teoria in un vettore temporale
    indirizzato al futuro ha come conseguenza quella di accendere la fiducia nella possibilità di trasformare il presente. Con ciò consegnano alla riflessione posteriore, con il tema del futuro, anche quello della speranza. Sarà questo infatti l’aspetto maggiormente valorizzato dai filosofi che con più costanza e profondità hanno rivolto in senso positivo la loro attenzione nel XX secolo al pensiero utopico: Ernst Bloch e i membri della scuola di Francoforte, in particolare Theodor Adorno e Herbert Marcuse, tutti pensatori di origine ebraica.

    Le critiche che nel XX secolo sono state rivolte al pensiero utopico, anche in seguito all’involuzione drammatica subita dai regimi che nel ‘900 hanno preteso di realizzare concretamente l’ideale di una società perfetta, hanno attirato l’attenzione sui suoi elementi di astrattezza e astoricità, e si sono soffermate sulle ricadute fortemente negative che questi aspetti hanno sul piano della politica. In connessione con questa critica nel ‘900 si sono diffuse quelle visioni letterarie dell’utopia che, ribaltandone il senso originario, l’hanno caratterizzata in termini fortemente negativi e angosciosi; come le visioni da incubo di un futuro mondo interamente controllato e disumanizzato consegnata da Mondo nuovo di Aldous Huxley e da 1984 di Gorge Orwell. Sebbene già Hegel nella metà del XIX secolo, avesse individuato il limite fondamentale dell’utopia nella mancanza di concretezza storica e nel disconoscimento del principio di individualità cui essa mette capo, è tuttavia Karl Popper che nel XX secolo ha delineato una critica complessiva all’utopia presto divenuta paradigmatica.

    Con l’occhio rivolto alla rivoluzione russa, il filosofo austriaco osserva che la pretesa inscritta nell’utopia di prospettare un cambiamento totale – anziché un quadro di riforme graduali che, in senso fallibilistico, procedano per prove ed errori e quindi per continui tentativi ed aggiustamenti – destina la stessa utopia a trasformarsi in una sorta di ingegneria globale, incorporante inevitabilmente un nucleo di violenza e costrizione, contrario ai principi di reciproco rispetto e di tutela delle libertà fondamentali che devono ispirare una società aperta. È contro questi pericoli che Popper nella Società aperta e i suoi nemici si fa difensore di una società democratica, basata sull’esercizio critico della ragione umana e sulla difesa di uno spazio pubblico di discussione, inteso come luogo di confronto tra diversi, di comunicazione interculturale e di tolleranza tra punti di vista nessuno dei quali pretende di rappresentare la verità assoluta.