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  • Alessandro Simonicca

    Il significato più comune di “tradizione” proviene però dall’epoca illuministica, e si associa a un significato per lo più negativo, in quanto indica l’insieme di concezioni del mondo che valgono solo per autorità precedente, e quindi non sottoposte al vaglio critico della verifica concettuale o fisico/sperimentale. Tale connotazione, dimostrata in specie dall’aggettivo “tradizionale”, sta a indicare che non possiamo più accettare per vere le cose del passato perchè esse sarebbero superate dagli avanzamenti del tempo presente, che invece rappresenterebbe sempre la fase più avanzata della storia umana e del suo indefinito progresso sociale e culturale. Si possono esprimere ampi dubbi sulla validità di tali opinioni.

    È indubbio che la “grande trasformazione” che ha segnato il mondo occidentale negli ultimi tre secoli (la rivoluzione industriale, l’urbanizzazione, la scientificizzazione della vita pubblica) ha posto una forte demarcazione fra un prima statico e immobile, e un poi dinamico e progressivo. Ma non bisogna nutrire una accezione ideologica di “tradizione”. Se per essa si intende “passato”, allora è errato pensarlo in termini di realtà inerte, perché anche il passato ha una “storia”, una sua dinamica e una sua trasformazione. Se invece per “tradizione” si intende “immagine” o “ricordo del passato” allora bisogna distinguere più correttamente fra “routine”, “consuetudini” e “tradizioni inventate”.

    Le “routine”, o convenzioni, sono nuclei di norme e tecniche utili a risolvere problemi, e quindi strategie umane all’opera per giungere a un fine. Le “consuetudini” sono i vecchi modi di agire o di comunicare ancora vitali (bisogna sempre ricordare che la tradizione implica tanto concetti quanto azioni!). Le “tradizioni inventate” sono invece tutte quelle pratiche che, per una loro specifica formalità e carica simbolica, sono orientate a inculcare valori e norme di comportamento di tipo ripetitivo e in forte continuità con il passato. In quanto tali, esse sviluppano azioni di consenso e tendono a legittimare l’ordine sociale costituito.

    Per esemplificare, la “consuetudine” è la pratica dei giudici legata alle procedure del dibattimento giudiziario: possono cambiare alcune norme ma non può scomparire l’azione giudicante, pena l’estinzione dell’istituto stesso. La parrucca, la toga e tutti gli ammennicoli formali e tutte le pratiche ritualizzate (quale quella di alzarsi in piedi quando entra un giudice, ad esempio) che circondano il nucleo della cosa stessa sono invece tradizioni inventate. Sono trapiantate dal passato nel presente per svolgere un ruolo che prima non avevano (Hobsbawm, Ranger).

    Sulle “tradizioni inventate” possiamo individuare due linee di lettura. Per alcuni critici esse sono vere e proprie manipolazioni del passato, di cui selezionano solo alcuni aspetti e temi utili al presente: una sorta di diga simbolica costruita ideologicamente per difendere dall’ansia e dall’insicurezza. Tale interpretazione però rischia di essere troppo parziale. Se andiamo, ad esempio, a vedere come “rinascono” o, appunto, sono reinventate le “feste popolari” degli anni Trenta del Novecento italiano (si pensi alle feste studiate da S. Cavazza: la giostra del Saracino di Arezzo, il calcio Fiorentino, il palio di Siena e il palio di Asti), dobbiamo riconoscere che sono feste che hanno senz’altro svolto un ruolo di supporto ideologico al regime allora dominante, interessato alla glorificazione di un passato nobilitante il presente. Hanno però permesso di attivare una operazione culturale di “interpretazione” locale dalla gittata lunghissima, la rivalorizzazione delle località e del “senso del luogo”, o di ciò che oggi si suole chiamare “patrimonio culturale” o heritage.

    È su questo secondo versante, di tipo ermeneutico, che si collocano altri autori, per i quali le “tradizioni inventate” sono complessi sistemi discorsivi con i quali una comunità costruisce e ricostruisce continuamente identità e senso di appartenenza, usando via via nel tempo quanto del passato è più simbolicamente valorizzativo per il presente. Qui il significato del termine, affatto positivo, sta ad indicare quella diffusa reazione alla modernità che tende a esaltare e/o a rivalorizzare quanto la società industriale ha messo ai margini: l’artigianato, la vita rurale, la socialità ristretta, la “località”. Tale rivincita del “locale” sul “globale” può avvenire in diversi modi. Può occorrere uno specifico rafforzamento (antistatalista) delle “periferie” rispetto al “centro”, ma può anche sorgere un meccanismo di resistenza politico-culturale a un potere non accettato: il cricket, da sport squisitamente e aristocraticamente britannico, diviene sport di massa nazionale nella India tardo-coloniale, tanto per intensità di pratica effettuata, quanto per opposizione simbolica all’imperialismo inglese, di lì a poco destinato a risultare sconfitto (A. Appadurai).

    I rapporti, pertanto, fra Stato nazionale e nuove tradizioni locali sono complessi e non riconducibili né alla mera opposizione, né alla semplice integrazione. Nelle tradizioni inventate si tratta, in ogni caso, di esercizi pubblici di “immaginazione morale” con cui le comunità locali riconoscono se stesse tramite una “autenticità ricostruita”. E ciò che ne consegue non ha a che vedere solo con sovrastrutturali rappresentazioni collettive, ma anche con assetti organizzativi, strutture per il tempo libero, mercati, esposizione di eventi pubblici, visitatori, flussi di reddito, secondo le tipiche dinamiche dell’ economia delle culture locali. In questo senso, “tradizione” non significa mera “autenticità”, quanto rappresentazione attuale del passato. Non è quindi errato asserire che “tradizione”, in quanto particolare interpretazione del passato, è uno specifico prodotto della modernità, e non l’ingenua idea di un nostalgico ritorno a un passato e a sentimenti di esso oramai definitivamente scomparsi.