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  • Eric Salerno

    Birnbaum aveva in mente e si ispirava alla collina di Sion nella città vecchia di Gerusalemme a pochi passi dal Muro del Pianto. Due anni più tardi, pubblicò un opuscolo con il titolo La rinascita nazionale del popolo ebraico nella sua patria come mezzo per risolvere la questione ebraica, in cui promuoveva alcune idee che sarebbero state appoggiate successivamente da Teodoro Herzl, giornalista austriaco d’origine ebraica, e che erano state anticipate già nel 1880 dai movimenti Hoveve’ Zion (gli amanti di Sion) come risposta alle frequenti persecuzioni antiebraiche in Europa dove viveva la maggioranza degli ebrei (cinquemilioni e mezzo su quasi otto nel 1880).

    Nonostante una notevole convergenza di vedute, tra i due nacquero presto divergenze ideologiche quando Birnbaum cominciò a mettere in dubbio gli scopi politici del movimento sionista e mise l’accento sul contenuto nazional-culturale del giudaismo. Abbandonò il movimento sionista e divenne il massimo sostenitore di un’autonomia culturale ebraica nella diaspora basata sulla lingua yiddish (e non l’ebraico antico riportato in vita da Eliezer Ben Yehuda nel 1890). Herzl, considerato il padre del sionismo, scrisse nel 1896 il suo Lo stato ebraico in cui asseriva che il problema dell’antisemitismo dilagante in Europa poteva essere risolto soltanto attraverso la formazione di uno stato ebraico.

    L’idea del “ritorno” a Sion, perorato da molti attivisti e religiosi anche prima della nascita del movimento sionista, era preminente: nelle preghiere degli ebrei, da quando furono costretti a lasciare la “terra promessa”, troneggia la frase “L’anno prossimo a Gerusalemme”. Da sempre esisteva nella “terra promessa”, tra Gerusalemme, Hebron e Safed, una minoranza ebraica: ma alcuni nazionalisti ebrei erano disposti ad accettare un luogo diverso, non collegato alle tradizioni bibliche degli ebrei, per il nuovo insediamento pur di poter lasciare un’Europa sempre più razzista e creare un’entità in grado di garantire sicurezza al loro popolo. Furono esaminate da un gruppo di sionisti cosiddetti “territoriali”, proposte riguardanti, tra l’altro, l’Uganda, la Libia, e l’Australia.

    “A Basilea ho fondato lo Stato ebraico (…) fra…cinquanta anni tutti se ne renderanno conto”, scrisse Herzl dopo il primo Congresso sionistico convocato nella città svizzera il 29 agosto 1897 e durante il quale fu adottato un programma per la fondazione di una patria nazionale per gli ebrei nella Terra d’Israele. La prima immigrazione su vasta scala, ebrei russi in maggioranza, avvenne negli anni dal 1882 al 1903. Nel 1882 fu stabilita la colonia di Rishon le-Zion (la “prima in Sion”). Seguirono altri insediamenti in Palestina su terre acquistate con gli ingenti fondi messi a disposizione da ricchi ebrei europei, tra i quali Sir Moses Montefiore, Edmond de Rothschild, Moritz von Hirsch. L’acquisizione delle terre, non sempre con mezzi leciti, e un atteggiamento talvolta di stampo colonialista, portò a contrasti con la popolazione nativa della regione, arabi musulmani e cristiani e armeni. Le tensioni regionali si aggravarono quando nel 1917 fu resa pubblica la Dichiarazione Balfour in cui il governo di Londra si impegnava a sostenere la creazione di una patria ebraica in Palestina. L’alià, ossia il ritorno degli ebrei nella “terra promessa”, assunse un ritmo più veloce negli anni ‘30 del secolo scorso, dopo l’ascesa di Adolf Hitler in Germania e l’emanazione delle leggi razziali. Nel 1937 la commissione britannica Peel suggerì di dividere la Palestina in due stati, uno ebraico, l’altro arabo, lasciando alla Gran Bretagna la città santa di Gerusalemme e un corridoio fino al mare. Di fronte a questa proposta e alla rapida colonizzazione della Palestina da parte degli ebrei, aumentò l’opposizione araba e Londra mise in atto una serie di misure per limitare l’afflusso di ebrei.

    Sull’onda dell’Olocausto, le Nazioni Unite adottarono nel 1947 parte delle raccomandazioni della Commissione Peel: la Palestina, dal mare fino al fiume Giordano, sarebbe stata divisa in due stati mentre sarebbe stato conferito uno status speciale alle città sante di Gerusalemme e Betlemme. David Ben Gurion, poche ore prima della fine del Mandato britannico sulla Palestina, proclamò lo Stato d’Israele il 14 maggio del 1948. Gli eserciti arabi attaccarono il giorno successivo, ma Israele, come risulta da documenti portati alla luce dai nuovi storici israeliani, era preparata respingerli. Dopo quindici mesi di combattimenti e scontri saltuari, lo Stato d’Israele era molto più grande di quanto era stato previsto dalle Nazioni Unite e centinaia di migliaia di palestinesi, fuggiti o cacciati dalle loro case, si trovarono dispersi in campi profughi allestiti nei paesi arabi limitrofi.

    Con la guerra del 1967, Israele s’impossessò anche della Cisgiordania e della parte orientale di Gerusalemme (oltre che delle alture siriane del Golan) rendendo ancora più difficile un accordo di pace. Quaranta anni dopo, il conflitto tra palestinesi (sottoposti a una dura occupazione militare e privati del loro diritto all’autodeterminazione) e israeliani si è fatto sempre più violento e costituisce uno degli elementi fondamentali dello scontro tra Islam e Occidente. Il mondo arabo ufficiale, nel suo insieme, ha accettato l’esistenza d’Israele e chiede soltanto il ritiro delle sue truppe dai territori occupati nel 1967 e una soluzione per la questione dei rifugiati per allacciare rapporti diplomatici, ma gruppi islamici fondamentalisti e il presidente iraniano Ahmadinejad, forse più per motivi di politica interna che d’altro, chiedono la sua distruzione.

    Quasi sessanta anni dopo la creazione dello Stato ebraico, è nato nel mondo ebraico un acceso dibattito sui termini sionismo e sionista. C’è chi in Israele ritiene che il primo sia superato poiché lo Stato ormai esiste. Per altri un vero sionista è soltanto chi ha scelto di vivere in Sion, ossia in Israele. Lo scrittore A.B. Yehoshua è uno dei più noti “nemici” della diaspora ebraica: il futuro dell’ebraismo mondiale è per lui nero e soltanto quello israeliano offre sicurezza. Nel sostenere questa tesi, l’autore si avvale di prove demografiche dalle quali risulta che gli ebrei della diaspora stanno perdendo la loro identità. I suoi critici, invece, l’accusano di attribuire eccessiva importanza a sessanta anni di Stato d’Israele e di dimenticare tremila anni di storia e cultura ebraica nella diaspora. La maggior parte degli ebrei della diaspora, d’altra parte, ritiene che il senso attuale di sionismo (ormai realizzato) è il sostegno stesso a Israele come stato ebraico o per gli ebrei.