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  • Massimiliano Panarari

    Alla nozione di globalizzazione si ascrive la maggior parte, quando non la totalità, dei mutamenti davvero significativi intervenuti negli ultimi decenni nell’ambito dei sistemi economico-produttivi e del lavoro, in quelli dell’informazione e della comunicazione, nelle tecnologie (fortemente orientate verso la centralità delle Ict – Information and Communication Technologies – dell’ingegneria genetica e del Biotech) e nelle relazioni internazionali (con la scomparsa di un mondo bipolare sostituito, secondo le varie teorie antitetiche in circolazione, da un pianeta unipolare, multipolare o dominato dall’ “Impero” americano), interpretabili principalmente quali conseguenze delle crisi economiche e delle conseguenti ristrutturazioni cominciate negli anni Settanta (in seguito alla scelta degli Stati Uniti, nel 1973, di rinunciare al sistema di tassi di cambio fissi deciso a Bretton Woods).

    La discussione sulla precisa determinazione delle origini del processo di mondializzazione rappresenta uno degli aspetti e delle “poste in gioco” fondamentali, con un ventaglio di posizioni che vanno da quella di coloro che rintracciano le radici nella Rivoluzione industriale del tardo Settecento a chi le fa coincidere con l’epoca delle grandi esplorazioni cinquecentesche (Amartya Sen) o con la lunga età del colonialismo europeo (molti degli esponenti dei postcolonial e dei subaltern studies), a chi, ancora, le individua negli anni Sessanta del Novecento con lo strutturarsi di quello che Marshall McLuhann ha chiamato, giustappunto, il “Villaggio globale”, sempre più unificato dalla produzione culturale e informativa dei mezzi di comunicazione di massa.

    Sino al cosiddetto “nuovo paradigma della globalizzazione”, elaborato dagli economisti Gene Grossman e Alan Blinder (con Richard Baldwin), che si fonda sulla delocalizzazione elettronica dei servizi, che si sostituirebbe al “vecchio paradigma” concernente il settore industriale e manifatturiero: una situazione nella quale la competizione finisce per vertere sul singolo posto di lavoro (qualificato e ad alto valore aggiunto di conoscenza), anziché su interi comparti produttivi maggiormente “tradizionali”. Nel vero e proprio mare di testi e volumi consacrati all’argomento, si possono distinguere, sia pur in maniera sommaria, alcune posizioni e orientamenti di massima, per quanto all’interno dell’opera di ciascuno studioso è possibile osservare evoluzioni e revisioni.

    I teorici del cosiddetto globalismo sottolineano la natura primariamente positiva e benefica (con l’introduzione di qualche distinguo) del fenomeno – tra di essi, Anthony Giddens, per il quale la globalizzazione è l’estensione della modernità su scala mondiale, Ulrich Beck, il teorico della “seconda modernità” e Amartya Sen che vede prevalere nella mondializzazione gli aspetti vantaggiosi). Studiosi più scettici giudicano la globalizzazione, a differenza degli studiosi precedenti, come un processo tutt’altro che irreversibile, costantemente in bilico tra universalismo e spinte al particolarismo (Ian Clark, Saskia Sassen), rispetto al quale gli Stati e i governi (soprattutto quelli delle maggiori potenze) non rappresentano spettatori passivi, ma soggetti attivi, responsabili, quindi, in parte rilevante della direzione di marcia assunta dai processi.

    I critici – famiglia molto numerosa, contraddistinta da posizioni anche marcatamente differenti, che va dagli orientamenti liberal e social-riformisti di Joseph Stiglitz e Jean-Paul Fitoussi e a quelli radicali di Zygmunt Bauman, Pierre Bourdieu (con l’arcipelago intellettuale raccolto intorno alla rivista parigina Le Monde diplomatique), Richard Sennett e Toni Negri – mettono in luce gli effetti perniciosi e nefasti, soprattutto sotto il profilo delle implicazioni esistenziali per gli individui e delle “conseguenze sulle persone” di quella che viene considerata l’ideologia autentica e il motore della globalizzazione, il neoliberismo; svolgendo anche – è il caso dei secondi – un ruolo di ispiratori diretti dei movimenti new e no global.

    Sempre più individui, per utilizzare la categoria inventata da Bauman, divengono “vite di scarto”: in una società edificata sul consumo e la precarizzazione del lavoro e sull’abolizione delle frontiere esclusivamente a beneficio delle élites globali cosmopolite, tutti gli altri soggetti risultano, invece, intrappolati in nuovi vincoli e limitati da barriere inedite. Lo stesso processo investe e coinvolge anche i cittadini del Primo mondo e delle nazioni ex industrializzate e ora postindustriali che non riescono a “tenere il passo”, travolti da quella che sempre Bauman chiama la “liquidità” del mondo. Soggettività flessibili esistenti solo in quanto consumatori (con la stessa politica che diviene appendice e assume le medesime logiche di funzionamento del consumo), sottoposte a un generale senso di insicurezza che va dal posto di lavoro (per il quale, nelle economie smaterializzate, viene richiesto il cosiddetto “talento” e una continua capacità di adattamento e reinvenzione di se stessi) alla vita privata (dove anche le relazioni sentimentali subiscono fenomeni di “contrattualizzazione a tempo”), gli uomini e le donne dell’età globale devono, nella loro maggioranza, dire addio a qualunque progetto complessivo e definito di autorealizzazione.

    Il pianeta globalizzato risulta assoggettato, in tali interpretazioni, ai canoni e alle leggi del Washington consensus, il paradigma socioculturale dell’America neoliberista che procede per omologazione e abolizione delle differenze delle culture, degli stili di vita e dei modelli comportamentali. Monoculturalismo (che si pretende per lo più universale e va allo “scontro di civiltà” con il diverso), mancanza di riconoscimento dell’altro, riduzione del multiculturalismo a forme sterilizzate di comunitarismo dentro la metropoli occidentale, individualismo quale solo orizzonte di senso e, per converso, allargamento delle ingiustizie e delle sperequazioni (incluso il global digital divide) costituiscono il portato di una globalizzazione che, secondo lo studioso antiutilitarista Serge Latouche, non approda affatto all’integrazione della società mondiale, ma allo sradicamento di gruppi e popoli incapaci di elaborare forme di resistenza da opporre a quanto chiama l’”uniformizzazione planetaria”. Tesi condivise e amplificate da gran parte delle tesi “ibridiste” e sul “meticciato” provenienti dall’etnometodologia e antropologia culturale e dagli studi postcoloniali di autori come H. K. Bhabha e P. Gilroy.