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  • Alessandro Simonicca

    Se in età formativa, l’assimilazione diviene una vera e propria “trasmissione culturale” (o, “inculturazione”) tramite una serie complessa di apprendimenti, a partire dalla lingua, all’educazione famigliare, all’apprendimento della vita sociale, all’educazione al ruolo sessuale, alla partecipazione agli eventi cerimoniali, alla memoria degli anziani, alla partecipazione a gruppi di pari. Se in età adulta, le dinamiche sono più complesse e meno efficaci le capacità adattive. In ogni caso, il nucleo più problematico dell’assimilazione sta nel sollevare questioni cruciali nell’approccio alle differenze culturali che abitano spazi comuni.

    La logica assimilativa è una delle risposte possibili agli sviluppi e agli effetti dell’incontro fra culture, e occorre in specie nei casi di gruppi etnici immigrati in paesi diversi da quelli di origine, oppure in gruppi minoritari appartenenti alla stessa società ma latori di distinte “subculture”. Il presupposto comune di fondo, comunque, è la negazione delle differenze culturali, o per lo meno la loro neutralizzazione, pena la rinuncia al pieno inserimento sociale pieno da parte dei soggetti apprendenti o interagenti. E la conclusione recita che è solo l’Altro a dovere cambiare e lasciarsi assorbire dalla cultura ospitante, adattandovisi.

    L’idea e il progetto culturale assimilativo è l’ “acculturazione” quale processo di assunzione progressiva di modelli normativi (etici, politici, giuridici, estetici…) di un’altra cultura spesso più avanzata. Ed è noto come il nucleo della teoria del melting pot della società statunitense post bellica, però miseramente naufragato. Bisogna infatti distinguere innanzi tutto fra processi pacifici e parziali da un lato, e processi violenti e determinati da invasioni o conversioni forzate (come nel caso classico del colonialismo europeo di secondo Ottocento) dall’altro. Alla stessa stregua, vanno distinti i vari tipi di migrazioni e le corrispondenti figure di comunità che ne derivano (comunità volontarie, costrette, di transito). A ciò, bisogna aggiungere che qualsiasi processo acculturativo non procede mai a senso unico, genera piuttosto uno scambio a doppio binario di varia intensità, in cui avviene che anche la cultura “ospitante” venga modificata per alcune caratteristiche dalla cultura “ospitata”.

    Il contatto fra culture presenta una gamma di esiti più differenziati rispetto alla sola logica della assimilazione. Oltre a quest’ultima, infatti, possiamo individuare altri tipi di interazione comunicativa, e corrispettivi modelli di identità: la separazione, l’identità plurale e la marginalità. Nella “separazione” lo scopo principale è il mantenimento della propria cultura cui consegue il rifiuto del contatto con altri gruppi. Tale rifiuto è definito “resistenza culturale”, quando l’Altro continua a fare riferimento alla cultura e all’identità etnica originaria. L’effetto è il rafforzamento dell’identità e la creazione di comunità “incapsulate”, reclamanti diritto alla lingua e alla cultura originaria, o isole etniche di diversità destinate all’isolamento e al conflitto.

    Nella “identità plurale”, i soggetti acquiscono consapevolezza di sé e competenze socioculturali in un continuo confronto fra due o più mondi, mantengono la propria cultura ma attuano uno scambio continuo e collaborativo con gli altri gruppi. Il frutto di tale strategia relazionale conduce alla formazione di identità elastiche, reticolari, e, nel caso ultimo, al “meticciato”. Nella “marginalità”, infine, v’è scarso interesse al mantenimento della propria identità, e i contatti con gli altri gruppi avvengono solo in maniera rara. I soggetti vivono al di fuori o ai margini tanto della cultura di provenienza quanto di quella di arrivo, subendo effetti di frustrazione emotiva e sociale, in quanto non avvezzi a proporre una reale proposta di sé.

    Il problema di fondo è se l’ “integrazione sociale” svolga la funzione di riprodurre acriticamente i valori comuni di un sistema sociale, oppure se sia una procedura per la negoziazione dei conflitti. Nel primo caso l’assimilazione si basa sull’idea ottimistica che nelle nostre società la scolarizzazione di massa permetta a ognuno di fondere le proprie radici con le altrui, dimenticandole; storicamente, l’esito di tale progetto non è apparso particolarmente felice. Per alcuni studiosi, le differenze etniche e culturali negate tendono a riaffiorare dando vita a disuguaglianze sociali e a processi di marginalizzazione; e la marginalizzazione, a sua volta, alimenta acute reazioni da parte di gruppi minoritari, inducendoli a radicalizzare le proprie radici e diversità, e instaurare nuove violente forme di razzismo. Altri invece lamentano l’insopportabile eccesso di omologazione nel comportamento sociale delle società di massa.

    Il secondo caso concerne invece l’accettazione di una piattaforma di valori, quali mete di un libero e consensuale accordo. Il punto di partenza di tale posizione è che nel contatto fra culture non esiste un punto di vista esterno rispetto al quale decidere quale di esse debba prevalere; un regno unitario di fini e valori comuni non si dà nell’attuale mosaico multiculturale, e quindi la modernità non può contare che sulla “razionalità formale”, e quindi sulle procedure razionali di controllo. La tesi di J. Habermas è che l’integrazione non debba essere strumentale, ma debba tendere a coincidere con un insieme di regole consensualmente accettate da parte di coloro che partecipano all’interazione sociale: ogni singolo prende posizione, con libera e riflessiva scelta, sugli argomenti avanzati dagli altri, sino a raggiungere l’accordo sul contenuto della norma da ritenere valida e legittima. La meta cioè non esiste, si deve piuttosto definire un comune accordo sulle azioni da intraprendere quando sorge un conflitto nella vita sociale. I conflitti sono costituitivi del vivere umano: si tratta non di negarli ma di trasformarli in risorse costruttive di senso.

    Al fondo delle due opzioni sta una diversa accezione delle potenzialità che la “cultura” possiede per il singolo individuo. Da un lato, si ritiene che la cultura costituisca una risorsa che in qualche modo il soggetto riesce a controllare per ottenere efficacemente risultati individualmente intesi. Dall’altro, si controbatte che la cultura è una condizione inevitabile, un obbligo esistenziale da cui non ci si può mai totalmente emancipare con scelte assolutamente originali. Nella prima accezione, “liberale”, la cultura è subordinata alla libertà politica ed è uno strumento per il soggetto; nella seconda, “comunitaristica”, è la libertà politica a divenire una funzione della cultura, e l’individuo è da questa ultima determinato. Gli attuali studi tendono a mediare tra tali tesi radicalmente opposte, riconoscendo i complementari ruoli che svolgono sia i vincoli normativi sia gli spazi della agency, e distinguendo le diverse fattispecie che distinguono le minoranze etniche dalle subculture delle minoranze.