Come vincere la paura
2 ottobre 2006

A colazione c’è del burro danese, al buffet dello Sheraton Hotel Kairo. Ancora poche settimane fa non si sarebbe fatto caso a questi familiari pacchetti di burro Lurpak. E invece dopo tutte le bandiere in fiamme, le ambasciate incendiate e le dozzine di morti, si cercano disperatamente segni di buon auspicio per il grande progetto che deve partire dal Cairo: nella prima settimana di marzo studiosi, politici e giornalisti provenienti da tutto il mondo si sono ritrovati nella capitale egiziana per “riflettere sul dialogo tra le culture”.
Negli ultimi anni ci sono già stati centinaia di incontri con titoli simili, sempre con gli stessi partecipanti che parlano educatamente ognuno per conto proprio. Ma le ultime settimane – in cui le vignette danesi, la negazione dell’Olocausto da parte del presidente iraniano e le nuove immagini delle torture di Abu Ghreib hanno segnato la reciproca percezione tra mondo islamico e Occidente – hanno mostrato che è prioritario avviare un dialogo autentico. Come si trova il tono giusto, al di là di accuse prevenute e falsi riguardi?

L’era del nichilismo in Europa è finita

Questioni non meno significative di queste hanno posto ai propri ospiti Giancarlo Bosetti e Nina zu Fürstenberg, promotori della conferenza del Cairo e responsabili di Reset, una piccola ma molto influente rivista di intellettuali. Con Reset Dialogues on Civilizations Bosetti e Fürstenberg intendono ora creare un network internazionale di politici, studiosi, artisti e giornalisti che sostituiscano la guerra delle culture con un dibattito franco e aperto. In qualche modo i due audaci ideatori sono riusciti ad appassionare, con le loro idee, l’ambasciata italiana, il Goethe Institut e il Supreme Council of Culture egiziano. E così per tre lunghi giorni ecco sedere uno accanto all’altro filosofi iraniani e americani, storici di Yale e del Cairo, politici e giornalisti europei e del mondo arabo. Nel suo benvenuto Giancarlo Bosetti dice che non ci può essere dialogo senza “pari dignità tra le parti”: “Ma questo non significa che ci dichiareremo d’accordo solo per essere cortesi, o che eviteremo di criticarci a vicenda”. Quanto difficile sarà tener fede a questa franchezza, è chiaro sin dall’inizio.

Uno dei più importanti tra i relatori egiziani, Sayed Yassin del think tank filogovernativo Al Ahram Centre for Strategic Studies, abbandona per protesta il primo panel, dal bel titolo Cosa possiamo imparare l’uno dall’altro. Il suo interlocutore Giuliano Amato, ex primo ministro italiano e vicepresidente della Convenzione europea, viene presentato per primo. Yassin se la prende e se ne va senza né un commento né un saluto. Amato, però, non si lascia innervosire e va all’attacco. “L’Occidente non è un blocco!”, esclama implorante verso il pubblico. “E nemmeno il mondo islamico è un blocco!”. Pieno di passione, l’ex primo ministro italiano fa appello a un’Europa che deve di nuovo accertare a se stessa i propri fondamenti, proprio perché è diventata “irrevocabilmente multiculturale”: “L’era del nichilismo nella filosofia europea è finita. I nostri filosofi riflettono sul rispetto che dobbiamo agli altri e su come possiamo definire il bene comune in un mondo in cui diverse legittime visioni del Bene devono coesistere l’una accanto all’altra”. Amato parla del “ritorno della religione”, della “società postsecolare” e al tempo stesso della “conquista della separazione tra Chiesa e Stato”.

L’Europa per cui fa il tifo Amato sta imparando a prendere sul serio, e in un modo nuovo, la forza delle religioni. Proprio per questo mostra loro quali siano i loro confini. Amato non ha fatto cenno alle vignette, eppure ha preso una posizione molto chiara. Perché si deve andare così lontano per ascoltare, dalla bocca di un politico di primo piano, un’invocazione così appassionata del modello europeo? Di fronte agli altri, negli occhi il rischio di un fallimento del dialogo, è cominciata un’autocomprensione europea. Otto Schily invoca il rispetto dei sentimenti e delle pratiche religiose degli altri, ma allo stesso tempo è molto chiaro quando dice che la lapidazione, la mutilazione dei genitali, il matrimonio forzato e una giustificazione religiosa del terrorismo non possono pretendere nessuna tolleranza. Il moderatore egiziano, astutamente, dice che nel mondo arabo i ministri degli interni agiscono molto raramente come difensori dei diritti umani. Il rifiuto di Amato del pensare per blocchi si rivela il tacito motto dell’incontro. E’ presto chiaro che tra i partecipanti provenienti dai paesi islamici esistono molte più differenze di quanto normalmente possano e vogliano ammettere. Aver organizzato al Cairo un forum per uno scambio ampio e senza paura di queste differenze, è già un piccolo trionfo per la gente di Reset.

Una separazione di politica e religione sarebbe un bene per l’Islam

Il filosofo egiziano Hassan Hanafi rappresenta l’opinione più estrema. Hanafi, che ha studiato alla Sorbona e che dirige l’istituto filosofico dell’Università del Cairo, aspira alla totale decolonizzazione del pensiero. Dipinge il quadro di un pensiero occidentale svuotato spiritualmente e moralmente, in fondo sempre indirizzato razzisticamente e imperialisticamente alla sottomissione degli altri, dell’Oriente. Dall’altra parte descrive un mondo islamico vitale e in evoluzione, che deve ricompattarsi intorno a un’altra ragione, un’altra fede, un altro ordine sociale. Nel caso in cui un giorno i Fratelli Musulmani andassero al potere in Egitto – cosa che dopo il loro successo alle ultime elezioni è diventata una possibilità abbastanza concreta – in Hassan Hanafi avrebbero un eloquente teorico della presa del potere. Ex marxista, ora vede la salvezza nell’Islam politico. Magnifica la vittoria di Hamas come “il nuovo regime decolonizzatore palestinese”.

Il polo opposto a Hanafi è rappresentato dal giovane filosofo iraniano Ramin Jahanbegloo. Viene da un paese in cui, a un prezzo spaventoso, si è messo alla prova il controllo politico da parte dell’Islam: “In Iran noi andiamo esattamente nella direzione contraria: perfino i clericali, da noi, cercano per quanto possibile di riseparare politica e religione. La teocrazia non è stata solo un male per la politica, ha corrotto anche la religione”. Jahanbegloo dice di essere “scandalizzato” dalla protesta dei musulmani radicali contro le vignette, che confermano proprio l’immagine che l’islamofobia occidentale tratteggia dei musulmani. Chi deplora l’intolleranza delle società occidentali verso i musulmani dovrebbe criticare anche la “demonizzazione dell’Occidente operata dai fondamentalisti islamici”.

Non fa mistero di parlare anche del suo governo. Come reazione all’istigazione antisemita del suo presidente, davanti ad un pubblico sorpreso dice di aver appena pubblicato un saggio sulla propria visita ad Auschwitz. Come fa a vivere ancora in Iran una testa così libera? Siamo in molti, dice. Se voi occidentali ci consideraste di più, invece di fissarvi solo su Ahmadinejad, per noi sarebbe più facile. Bassam Tibi porta la discussione sulla formula della “battaglia delle idee”, di cui saremmo testimoni nel mondo islamico. Al Cairo si può vedere per dove passino le linee del fronte. Per spezzare l’egemonia dell’Occidente dobbiamo voltargli le spalle e rivolgerci alla nostra identità islamica, dicono gli uni. Dobbiamo liberarci dalla nostra miseria aprendoci e ravvivando la sepolta tradizione islamica degli studi e del cosmopolitismo, dicono gli altri.

Ma gli spazi per questa battaglia sono stretti, al di là di qualche convegno. Gli ambasciatori di questi messaggi, in tempi di revival islamista e di crescente chiusura, si ritrovano anche qui a dialogare. A un ragazzo con la barba l’intero senso dell’incontro proprio non va giù. Tiene un discorso rabbioso contro l’idea del dialogo tra pari. L’Islam non ha bisogno di nessun dialogo, di nessuna democrazia, di nessuna secolarizzazione. Nell’Islam tutto ciò di cui gli uomini avevano bisogno è già dato, e tutti sono del resto calorosamente invitati rivendicarglielo. Ai relatori di casa l’intervento suona molto imbarazzante. Ruotano gli occhi e si voltano dall’altra parte. Eppure nessuno contraddice il ragazzo con la barba. Nessuno vuole inimicarselo. Con persone come lui in futuro, in Egitto, bisognerà fare i conti.
Un motivo in più per tornare a incontrarsi presto.

Questo articolo è stato pubblicato sul settimanale tedesco Die Zeit il 16 marzo 2006

Traduzione di Daniele Castellani Perelli