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  • Guido Rampoldi

    Stando a quella norma, sono terrorismo le azioni che comportano “violenze gravi contro la persona”, e/o “gravi danni ai beni”, e/o “un grave rischio per la salute e la sicurezza della popolazione o di una parte di essa”. Per ricadere nella fattispecie di ‘terrorismo’ queste azioni devono essere mirate a “influire sul governo o intimidire la popolazione o una parte di essa”, ed avere uno scopo definito, “promuovere una causa politica, religiosa o ideologica”.

    La definizione sembra inattaccabile ma in realtà comporta un problema enorme: può essere applicata a gran parte delle guerre aree combattute nelle ultime decadi, fossero anche le più ‘giuste’ e le meno distruttive. Per esempio non v’è dubbio che l’attacco lanciato dalla Nato contro la Serbia nel 1999 comportasse “gravi danni ai beni” e che intendesse intimidire una parte della popolazione, quella fedele a Milosevic, per piegarne la volontà generale agli obiettivi politici che l’Alleanza atlantica si proponeva. Eppure la guerra della Nato, malgrado tre o quattro attacchi probabilmente intenzionali a civili, fu la meno ‘sporca’ tra tutte le guerre combattute nel Novecento, innanzitutto per la cura quasi sempre posta dal comando alleato nell’evitare vittime tra la popolazione (500 civili uccisi in 70 giorni).

    La lezione che se ne potrebbe trarre è che sarebbe un contributo alla chiarezza escludere dal novero delle ‘azioni terroriste’ quelle che provocano unicamente “gravi danni ai beni”. Ma questo accorgimento non ci risparmierebbe qualche dilemma ulteriore. Fu un terrorista Churchill, il Churchill che nel 1943 ordinò i bombardamenti (inutili) delle città tedesche nel nome d’una “Suprema emergenza” che avrebbe fatto aggio sul Secondo Protocollo della Convenzione di Ginevra, dove si vietano ai combattenti condotte rivolte “contro la popolazione civile come tale”, ovvero “atti di violenza il cui fine primario è spargere il terrore nella popolazione civile”? Sono terroristi potenziali G.W.Bush e Chirac quando minacciano di rispondere ad un attacco terrorista con l’arma atomica, cioè di bruciare vivi centinaia di migliaia di inermi, la cui unica colpa sarebbe quella d’essere sudditi d’un tiranno sanguinario?

    Per evitare imbarazzi alcune legislazioni europee, per esempio l’italiana, evitano di definire la natura del ‘terrorismo’, che pure sanzionano. Ma non è una soluzione saggia, come dimostrano le furibonde polemiche scoppiate in seno alla magistratura italiana tra due scuole di pensiero, circa le reti di immigrati musulmani che organizzavano i viaggi dall’Europa all’Iraq di confratelli islamici desiderosi di combattere contro la ‘Coalizione dei volenterosi’: per gli uni gli aspiranti guerrieri erano ‘combattenti legittimi’, malgrado i metodi della guerriglia siano in genere spaventosi; per gli altri erano ‘terroristi’ e come tali punibili, benchè nessuno fosse in grado di provare che, una volta in Iraq, avrebbero ammazzato civili per semninare terrore. Se l’Europa si smarrisce, i Paesi musulmani non sono più lineari, come conferma lo stallo in cui si bloccò nel 2003 l’Oic, l’Organizzazione della conferenza islamica, incapace di decidere se i kamikaze palestinesi che facevano strage di civili israeliani fossero, come pure pareva evidente, terroristi.

    Le istituzioni internazionali finora non sono state in grado di concordare soluzioni condivise per uscire da queste impasse. Le Nazioni Unite dibattono da un trentennio cosa debba considerarsi ‘terrorismo’ e cosa ‘lotta di liberazione nazionale’ (quest’ultima espressamente esclusa dalla Convenzione contro il terrorismo varata nel 1999 dall’Organizzazione della conferenza islamica). I Paesi aderenti allo Statuto di Roma, cui fa riferimento la Corte penale internazionale, hanno rinviato al futuro la definizione di ‘terrorismo’, fattispecie tuttora assente da quel codice. La Decisione-quadro del Consiglio d’Europa, che armonizza le norme dei singoli Paesi della Ue in materia di terrorismo e rende più efficace il coordinamento tra le polizie, presta anch’essa il fianco al “paradosso serbo” che segnalavamo nelle righe precedenti; inoltre rimanda alle legislazioni nazionali questioni non da poco, innanzitutto come definire esattamente il reato di ‘associazione ad organizzazione terroristica’, il problema in cui già s’è incagliata la magistratura italiana.

    Se la teoria è confusa, la pratica spesso è ambigua. Innanzitutto perché non sempre è chiaro il confine tra ‘terrorismo’ e ‘anti-terrorismo’, Dall’inizio di questo inizio-secolo è enormemente cresciuto il rifiuto della violenza commessa da organizzazioni armate su inermi, che invece le ideologie egemoni nel Novecento giustificavano. E questa nuova sensibilità ha prodotto, tra l’altro, una maggior collaborazione tra le polizie. Ma allo stesso tempo è decresciuta in maniera preoccupante la sensibilità alle violenze commesse dagli apparati repressivi degli Stati. Dopo l’11 settembre vari regimi polizieschi hanno potuto sottrarsi alle censure internazionali schierandosi a fianco dell’amministrazione Bush nella ‘guerra al terrorismo’. Eppure non fu il terrorismo delle organizzazioni armate, ma il ‘terrorismo di Stato’, ad uccidere il maggior numero di civili nel Novecento. Inoltre alcune democrazie si sono sentite in diritto di varare legislazioni emergenziali contro il terrrorismo che rischiano di incentivare l’arbitrio poliziesco. Giova ricordare che anche una democrazia può praticare il terrore, come testimonia una storia millenaria, dai metodi di combattimento inaugurati dalla democratica Atene nella guerra del Peloponneso contro la non democratica (ma non ‘terrorista’) Sparta, fino ai metodi usati in Kashmir sia dall’esercito indiano sia dall’esercito pakistano.

    Una definizione condivisa di “terrorismo” probabilmente potrà essere trovata quando sia gli Stati sia le organizzazioni armate che li contrastano converranno che anche chi combatte il nemico più infame per la causa più giusta deve porre dei limiti alle proprie condotte “militari”. Questo limite non può che risiedere nel rispetto di diritti umani fondamentali, garantito da una qualche forma di giustizia internazionale. Si tratta insomma di trovare una non facile via d’uscita all’imperante dottrina del Male minore, per il quale Machiavelli assolve un Cesare Borgia ferocissimo, che nondimeno «con quella sua crudeltà aveva racconcia la Romagna, unitola, ridottola in pace e in fede».

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