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  • Nadia Urbinati

    La Convenzione di Ginevra definisce il rifugiato come colui che “temendo a ragione di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche, si trova fuori dal Paese di cui è cittadino e non può o non vuole, a causa di questo timore, avvalersi della protezione di questo Paese” (Art.1 A, par.2). Il rifugio in terra straniera è l’esito di due condizioni che sono tra loro in stridente contraddizione: la scelta volontaria di chi espatria e la necessità dalla quale la decisione dell’espatrio è indotta. In questa contraddizione è incapsulato lo stato di sofferenza naturalmente associato all’abbandono del proprio paese, alla scelta di diventare ospiti in casa d’altri, di farsi stranieri per poter sopravvivere o essere liberi.

    Il radicamento della cultura del diritto, e del diritto cosmopolitico in particolare, ha contribuito ad alleviare il rifugiato (quello politico senza dubbio) di almeno una delle paure associate al fuoriuscitismo, quella nei confronti dello stato ospitante, non sempre o necessariamente benevolo con i rifugiati. Ma nonostante la forza dell’argomento kantiano sul dovere di ospitalità dello straniero (come a voler sottolineare il fatto che siamo in effetti tutti stranieri su questa terra) e nonostante l’evoluzione in senso umanitario del diritto civile e di quello internazionale negli ultimi due secoli, la condizione dei rifugiati nel vecchio continente non è andata e non è esente da rischi; anche in quei paesi, come la Francia, verso i quali, per esempio, gli antifascisti italiani si sono recati numerosi nel secolo scorso, a cominciare dal giovane Piero Gobetti e da Carlo Rosselli, il quale ultimo come sappiamo in Francia trovò sia la libertà che la morte. È Rosselli a ricordarci con parole franche come l’esiliato viva in uno stato di permanente paura e diffidenza, perché: “Le polizie sono sempre solidali tra loro, anche quando tra i rispettivi governi c’è opposizione”. Come a dire che, anche qualora la libertà civile e politica fosse garantita da una carta costituzionale, nessuno potrebbe mai comunque sentirsi completamente al riparo da rischi.

    Il monito di Rosselli torna di attualità oggi di fronte a un fenomeno nuovo di fuoriuscitismo, dettato non da ragioni politiche ma economiche e sociali. Di fronte a questa forma di emigrazione le convenzioni internazionali sono inesistenti e i diritti umani conclamati impotenti. Le società democratiche occidentali, quelle europee in modo particolare, hanno in anni recenti contribuito a creare una nuova forma di esclusione, quella di clandestinità, che il governo italiano ha nelle settimane passate dichiarato un reato. Benché la legge sia uguale per tutti, è un fatto che sono clandestini perseguitabili tutti coloro che appartengono ai paesi più poveri del mondo e che con mezzi di fortuna e quasi sempre in massa cercano di raggiungere i nostri paesi per trovarvi un’opportunità di sopravvivenza economica. Gli immigrati, senza dubbio quelli che aspirano a un lavoro e una vita dignitosa, prendono sul serio la promessa del liberalismo, sulla quale le società che ora li respingono sono sorte: l’impegno individuale come condizione per la realizzazione sociale.

    Le migrazioni transnazionali e l’interdipendenza globale sfidano il liberalismo dei paesi occidentali, che si fa via via piú nazionale e meno universale. Sfidano inoltre la sovranità e i confini degli stati, i quali sono pattugliati non soltanto con guardiani e leggi, ma anche con l’ideologia xenofobica e il razzismo. Le frontiere non devono semplicemente essere guardate e pattugliate (come lo stato sovrano non può non fare), ma devono anche essere chiuse a coloro che vengono a cercare un’opportunità di vita. La frizione tra universalismo e cultura morale dell’accoglienza, valori che la democrazia e il liberalismo coltivano naturalmente, e interessi nazionali può avere effetti potenzialmente esplosivi se è vero che un continente come l’Europa, che aspira a diventare il faro della moralità cosmopolita e dei valori democratici, pattuglia i suoi confini per difendere la sua civilizzazione e edificare la sua europeità.

    I nuovi nemici dell’Europa, i soli contro i quali l’Europa è propensa e pronta a mobilitare gli eserciti, non sono né stati bellicosi né imperi espansionistici, ma boat people, disperati che cercano di sopravvivere sfuggendo alla fame e agli abusi, anche se, purtroppo, nessun codice internazionale e nessuna convenzione accorda loro lo status di rifugiati, perché la povertà, la destituzione economica non sono considerate forme di abuso di diritti fondamentali. Questa è per sommi capi la situazione che sta dietro la scelta di criminalizzare il tentativo dei disperati della terra di cercare opportunità di lavoro e vita fuori dai loro paesi, paesi che sono condannati da un ordine economico internazionale ingiusto a non poter offrire ai loro cittadini alcuna speranza. L’esclusione dei miseri della terra, se e quando non è accompagnata da un serio progetto di redistribuzione globale, ovvero da politiche di riequilibrio tra i paesi ricchi e i paesi poveri, non può essere giustificata da nessuna persona che si appella ai principi liberali e democratici.

    Nadia Urbinati è professore di Teoria politica alla Columbia University di New York. Dirige insieme ad Andrew Arato la rivista Constellations. Tra le sue pubblicazioni, Representative Democracy: Principles and Genealogy (University of Chicago Press 2006). Autrice di saggi sul liberalismo, l’individualismo e Stuart Mill, ha curato e pubblicato in America, per Princeton University Press, il Socialismo liberale di Carlo Rosselli. È inoltre co-autrice di Liberal-socialisti. Il futuro di una tradizione (con M. Canto-Sperber, I libri di Reset, Marsilio, 2003) e di La libertà e i suoi limiti. Antologia del pensiero liberale da Filangieri a Bobbio (Con C. Ocone, Laterza, 2005).

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