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  • Annamaria Rivera

    In un’altra accezione, il pregiudizio è un’opinione, un sentimento, un’attitudine coltivati e/o espressi non per conoscenza diretta di un individuo o di un gruppo sociale, ma in base a luoghi comuni, cliché, stereotipi più o meno largamente condivisi. Tipico del pregiudizio inteso in tal senso è la tenace resistenza alle prove dell’esperienza, della conoscenza, della relazione diretta. Cristallizzandosi in forme irreversibili e divenendo modo consueto e socialmente condiviso di percepire e rappresentare certe categorie di persone o gruppi minoritari, i pregiudizi possono alimentare o giustificare discriminazione e razzismo.

    È il pregiudizio orientato in senso negativo, in particolare verso gruppi minoritari, che ha attirato l’attenzione di una numerosa schiera di studiosi, dando luogo a molteplici teorie interpretative, quasi tutte utili a comprendere un fenomeno dall’eziologia assai complessa. A partire dagli anni Cinquanta, gli studi si moltiplicano, anche per influenza dell’opera diretta da Theodor W. Adorno, La personalità autoritaria, pubblicata nel 1950. Frutto di una ricerca collettiva, quest’opera indaga il pregiudizio principalmente al livello della personalità individuale, interpretandolo, in definitiva, quale esito di un’educazione rigida, conformista, autoritaria.

    Nell’ambito della psicologia sociale, l’opera del 1954 dello statunitense Gordon W. Allport, La natura del pregiudizio, ha il merito d’integrare l’analisi dei processi cognitivi con quella delle dimensioni sociali del pregiudizio. Per Allport, il pregiudizio è un “atteggiamento di rifiuto o di ostilità verso una persona appartenente ad un gruppo, semplicemente in quanto appartenente a quel gruppo, e che pertanto si presume in possesso di qualità biasimevoli generalmente attribuite al gruppo medesimo”. Il pregiudizio scaturisce da processi cognitivi, segnatamente dalla propensione, propria ad ogni individuo, a categorizzare, per organizzare, semplificare e schematizzare la complessità della realtà sociale. La categorizzazione, a sua volta, essendo di per sé un processo riduttivo ed associandosi a una componente affettivo-valutativa, può produrre stereotipi, generalizzazioni arbitrarie ed etichettamenti.

    Sempre nell’ambito della psicologia sociale, un altro contributo importante è quello di Henri Tajfel, il quale si sofferma sulla funzione sociale del pregiudizio, che correttamente analizza nell’ambito delle relazioni –molteplici, complesse e mutevoli- fra gruppi sociali diversi. Proponendosi d’indagare il processo che porta alla discriminazione di individui e gruppi diversi dal “noi”, egli mette in luce come il pregiudizio svolga una funzione identitaria: soprattutto quando la propria identità sociale è percepita come incerta e minacciata, si tende a preservarla o a ricostituirla attraverso processi di categorizzazione che enfatizzano la differenza noi/altri, l’immagine positiva di sé e quella negativa degli altri. Stereotipi e pregiudizi si strutturano sulla base della tradizione culturale, del sistema valoriale, degli interessi e del bisogno di differenziazione propri di un gruppo determinato, e possono alimentare o giustificare discriminazione ed ostilità.

    Stereotipi e pregiudizi tendono a semplificare la realtà sociale, negandone la complessità, la molteplicità, l’ambivalenza, la storicità. Essi si presentano spesso sotto le forme: della generalizzazione arbitraria; della naturalizzazione di caratteri storici, sociali, culturali, veri o presunti, del gruppo-vittima; della tendenza ad etichettare una categoria di persone o una collettività sulla base di alcuni tratti –pochi e standardizzati- e a designare, in base a questi, tutti gli individui che le compongono: ogni ebreo sarebbe ultrasionista, avido di denaro, legato a lobby potenti, ogni musulmano fanatico e potenziale terrorista, ogni “zingaro” accattone, ladro, rapitore di bambini, ogni “clandestino” deviante o delinquente. Gli “altri” sono così cancellati come individui, come persone uniche e singolari.

    Alcuni pregiudizi, che si sono formati e stratificati attraverso varie tappe della storia europea, costituiscono repertori sempre latenti, che periodicamente riemergono o tornano ad essere mobilitati in contesti e con funzioni e scopi diversi. Ciò è particolarmente vero per i pregiudizi antiebraici e per quelli contro i rom e i sinti. Fra i pervicaci pregiudizi sugli “zingari”, anche quelli in apparenza più banali contribuiscono ad alimentare la stigmatizzazione, la discriminazione, l’ostilità: per esempio, in Italia molte istituzioni agiscono spesso in base al pregiudizio che li vuole “nomadi” da sempre e per sempre, il che contribuisce a perpetuarne la segregazione in campi-ghetto.

    I pregiudizi -oggi più che mai veicolati, legittimati e rafforzati dai mass-media- innescano un circolo vizioso ben analizzato dagli studiosi: se le minoranze oggetto di pregiudizio non possono accedere a diritti fondamentali come, per esempio, quello all’abitazione, è perché il pregiudizio e la discriminazione conseguente impediscono l’esercizio di questo diritto. Ciò a sua volta, accrescendo la loro marginalità e visibilità, alimenta pregiudizio, discriminazione, eventualmente xenofobia.

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