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  • Marcello Flores

    I problemi più rilevanti sembrano essere:
    1. la definizione (limiti, necessità di rivederla e aggiornarla, condivisione del concetto)
    2. l’uso pubblico della parola (nel dibattito di politica internazionale – giudizio dell’Onu o di altre agenzie ai fini di interventi in zone a rischio, ad esempio il Darfur; nel dibattito politico internazionale – ad esempio l’ingresso della Turchia e il genocidio degli armeni; il confronto sulla memoria – riconciliazione o giustizia, contrapposizione delle memorie, tendenza alla vittimizzazione, ecc); sul terreno della giustizia nazionale e internazionale – il lavoro dei tribunali ad hoc su ex-Jugoslavia e Rwanda, la Corte penale internazionale, i giudizi in corso in Argentina, Cambogia, ecc)

    Ognuno di questi punti meriterebbe di essere affrontato con maggiore ampiezza. Si può suggerire, tuttavia, che il problema maggiore risieda, sostanzialmente, in una contraddizione apparentemente insuperabile. Alla base della definizione e del concetto di genocidio vi è un elemento giuridico fondamentale e insopprimibile, che si può riassumere nel contributo pionieristico dato da Raphael Lemkin, nei lavori del Tribunale di Norimberga e nella stesura della Convenzione per la condanna e la prevenzione del crimine di genocidio del 1948.

    Questo contributo si è immediatamente intrecciato con motivi di carattere politico e diplomatico, che hanno portato – per fare l’esempio più clamoroso – all’espulsione della categoria di gruppi “politici” dal novero delle possibili vittime di genocidio, su insistenza del blocco sovietico che ottenne la modifica della primitiva formulazione. Sulla base di quella decisione-formulazione giuridica e politica internazionale, si è sviluppato col tempo un dibattito tra studiosi di diverse discipline che è andato crescendo con gli anni; mentre a livello pubblico la questione è stata largamente ignorata fino agli anni ’80 e soprattutto ’90 quando, con la fine della guerra fredda e del comunismo, e il riproporsi su vasta scala di violenze di massa con probabili caratteristiche genocidiarie, la questione è tornata d’attualità.

    Si può dire che le prime riflessione delle scienze sociali sul genocidio appartengono agli anni ’80 del XX secolo, anche se soltanto nel decennio successivo esse diventano oggetto di approfondimento e dibattito, offrendo posizioni molteplici e spesso divergenti e iniziando a interagire in modo sempre più intenso con il lavoro che andava svolgendosi ormai da anni presso gli Holocaust Studies, luogo d’incontro e dibattito prevalentemente tra storici. Uno dei più frequenti interrogativi che era stato dibattuto in quest’ambito, era stato quello relativo all’unicità o alla singolarità della distruzione degli ebrei europei all’interno delle esperienze di mass killing e mass murder del Ventesimo secolo. Nei Genocide Studies, sorti successivamente per opera in genere di scienziati sociali, lo scopo principale sembrava essere, invece, la ricerca di una definizione che potesse soddisfare tanto la conoscenza e spiegazione dell’Olocausto quanto dei genocidi compiuti precedentemente e successivamente all’invenzione del termine.

    Le nuove proposte di definizione avanzate da sociologi, politologi, storici (Horowitz, Kuper, Fein, Chalk e Jonassohn, Mann, Weitz, Gellately e Kiernan, Levene), hanno permesso di approfondire e affinare enormemente il dibattito, pur senza giungere ad alcuna conclusione condivisa. Si è allargata, anzi, la contrapposizione tra coloro che intendono il genocidio prevalentemente od esclusivamente un prodotto della modernità (sulla scorta di Bauman, anche se non solo) e coloro che lo riconducono – pur se il termine è recente – all’intera storia dell’umanità, a partire dalla distruzione di Melo, di Cartagine, ai massacri di Gengis Khan e della conquista delle Americhe. Il rifiuto, da parte di molti appartenenti a discipline storico-sociali, della definizione giuridico-politica (quella della Convenzione), e il tentativo infruttuoso di darne una nuova versione più coerente e condivisa, è stato accompagnato tuttavia – specie negli ultimi anni – da un rinnovata capacità del mondo del diritto ad approfondire la stessa questione della definizione e dell’attribuzione del crimine di genocidio. È quanto avvenuto nei tribunali dell’Aja e di Arusha per i crimini nell’ex Jugoslavia e in Rwanda, o nel corso del dibattito ancora in corso sull’esistenza di genocidio nella crisi del Darfur.

    Soprattutto quest’ultimo mostra quanto peso abbia avuto e abbia oggi in modo crescente l’atteggiamento dell’opinione pubblica, e come in questa ottica l’uso del termine genocidio costituisca un elemento di mobilitazione emotiva che viene usato con riferimenti sempre più labili tanto alla definizione giuridica quanto al dibattito tra gli studiosi. Il genocidio, insomma, col tempo sembra perdere progressivamente il carattere di crimine “legale” e acquista soprattutto quello di condanna “morale”. L’uso del termine è, sempre più, un uso analogico, che parta dalla definizione giuridica o dal riferimento alla Shoah ma ha come scopo di rafforzare e accentuare la condanna – o la proposta d’intervento – in situazioni di chiara presenza di crimini contro l’umanità e drammatica crisi umanitaria. Ciò avviene, in qualche modo, in controtendenza con il passato, quando si evitò coscientemente di usare il termine genocidio: per lunghi anni, ad esempio, nei confronti di quanto avvenuto in Cambogia nella seconda metà degli anni ’70 o, più recentemente, in occasione del genocidio rwandese, riconosciuto come tale subito dopo ma non mentre stava avvenendo.

    È evidente, comunque, che nella ricostruzione storica e nella comparazione non si può accantonare o ignorare l’elemento giuridico che è alla base della definizione di genocidio. Se ciò avviene, tuttavia, quella che viene comparata e raccontata è, più semplicemente, la storia della violenza di massa e dei massacri collettivi, anche se si usa e si vuole usare il termine genocidio. Al di fuori del legame con il significato profondo e preciso della Convenzione, il concetto di genocidio risulta un sinonimo – che è portatore di una condanna morale più forte e richiama, quindi, un’attenzione particolare – di grande massacro, di violenza estrema, di barbarie difficilmente raggiunta. Genocidio non sarà più, quindi, un termine capace di avere un connotato conoscitivo, che potrà venire data solo dall’articolazione e profondità dell’analisi; mentre il richiamo al genocidio servirà per catalizzare la partecipazione emotiva e rendere più forte il legame tra la sensibilità odierna nei confronti della violenza e la rilettura delle violenze del passato.

    Di fronte a questa complessa problematica, che investe il piano della ricerca e degli studi, quello della teorizzazione e pratica giuridica e quello dell’opinione pubblica e della politica internazionale, è evidente quanto sia difficile offrire una soluzione – sul terreno della definizione e su quello dell’uso corrente e pubblico del termine – che soddisfi ogni richiesta di precisazione, aggiornamento, miglioramento, maggiore chiarezza e coerenza. È anche evidente come soltanto in un ambito interdisciplinare, capace di coinvolgere e di sollecitare tutte le risorse che sono state impegnate negli ultimi anni nel fare i conti con la questione del genocidio, sarà possibile fare un passo avanti che renda meno complesso e contraddittorio parlarne e discuterne.

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